In questi giorni sta
montando un ampio dibattito a livello mondiale (del tutto ignorato in Italia,
ma questa non è una novità, visto che noi abbiamo ben altre faccende a cui
pensare, come votare nientedimeno che Romano Prodi, la Thatcher nostrana
versione mortadella ruspante, al Quirinale: quando si dice il nuovo che avanza!)
sugli errori commessi dai celebri economisti di Harvard Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff
nel calcolo della correlazione fra alto
debito pubblico e bassa crescita economica. Secondo la tesi e i dati
ricavati dai due studiosi, quando il debito pubblico supera la soglia critica
del 90% del PIL assistiamo ad una
progressiva stagnazione o addirittura ad una recessione dell’economia. Il paper
incriminato risale al 2010, “Growth in a Time of Debt”, ma solo
oggi tre sconosciuti economisti dell’Università del Massachusetts, Thomas Herndon,
Michael Ash e Robert Pollin, sono riusciti con un altro paper, dal titolo “Does High Public Debt consistently stifle Economic Growth? A critique of Reinhart and Rogoff”, a smascherare tutti gli errori di calcolo, alcuni dei quali davvero grossolani, compiuti
dai due ben più noti e accreditati economisti. La vicenda ha del paradossale,
perché soprattutto negli Stati Uniti il lavoro di Reinhart e Rogoff
era stato fino ad oggi un punto di
riferimento per tutti i sostenitori dell’austerità e del taglio dei deficit
pubblici, imputando solo a questi ultimi la causa principale della bassa
crescita economica. Ora per i cosiddetti “falchi
del debito pubblico” rimangono solo due strade: o ritrattare tutto quanto
permettendo al governo di attuare le necessarie manovre anticicliche di aumento
dei deficit pubblici per far ripartire la crescita (cosa molto improbabile),
oppure assoldare un altro gruppo di noti economisti per manipolare altri dati
e confermare la loro tesi insensata.
Questa è l’economia, bellezza! Chi
ha i soldi dice cosa è vero e cosa è falso, chi non ne ha non solo non ha diritto
di parlare ma non può nemmeno entrare nelle statistiche e nei sondaggi, perché
da che mondo è mondo solo chi spende fa
economia, mentre chi non ha niente da spendere fa la fame. L’economia
infatti è una disciplina molto strana che si occupa molto di più di quanti
profitti o soldi spende un miliardario (perché questo fa alzare notevolmente il
PIL), rispetto a quante ingiustizie e
iniquità redistributive esistono nel mondo. Essendo una materia fatta ad
uso e consumo di chi i soldi già ce li ha, è chiaro che i suoi maggiori esperti
e cultori mondiali non fanno altro che sfornare studi su studi, papers su papers, libri su libri per irrobustire le ragioni e le istanze di chi gli ha
consentito di diventare celebri. E purtroppo, qualche tempo fa, anche io ho
partecipato all’orgia di successo dei due
campioni della menzogna di Harvard, più per curiosità che per reale
interesse, comprando il loro best seller “Questa volta è diverso. Otto secoli di
follia finanziaria”, rimanendo sconcertato dopo aver letto le prime
pagine: con la tipica perentorietà di chi declama l’ovvio, i due economisti
mettevano sullo stesso piano debito
pubblico, debito privato e debito estero, facendo velatamente
intendere che la crisi di un paese potesse nascere indifferentemente dall’aumento
dell’una o dell’altra tipologia di debito. Cosa ovviamente falsa, ma tanto cara
a chi li aveva convinti a suon di lauti compensi a scrivere quelle cavolate. Ma perché le persone ricche odiano così
tanto il debito pubblico?
Per rispondere a questa
domanda, forse sarebbe più semplice capire cosa amano le persone ricche, quelle
per intenderci che non lavorano o non hanno necessità materiale di lavorare (a
parte per passatempo o hobby personale) e vivono di rendita o di lasciti ereditari. Dovendo contare soprattutto sul potere di acquisto dei loro patrimoni monetari e finanziari, queste
persone vogliono in genere le seguenti cose: bassa inflazione o addirittura deflazione, cambio stabile o meglio ancora apprezzamento della valuta nazionale,
alti e sicuri rendimenti degli
investimenti finanziari, ampia libertà
di circolazione dei capitali. In caso di crisi finanziaria e bancaria,
causata nella maggior parte dei casi proprio dai massicci spostamenti di
capitali delle persone molto ricche, i rentiers
desiderano ovviamente che non venga intaccato nemmeno un centesimo dei loro
patrimoni e a pagare siano le altre classi sociali e in particolare i lavoratori, quelli come noi che vivono
grazie al reddito da lavoro e non
dalla rendita. E la ragione di un simile accanimento è molto semplice e viene spesso evocata dagli
stessi politici che lavorano al servizio dei rentiers: mentre i ricchi sono pochi e spesso inafferrabili, i
lavoratori (inclusi quelli già in pensione) sono molti e disposti al martirio
senza opporre alcuna resistenza. Una qualunque tassa o “riforma strutturale” che
penalizzi maggiormente i lavoratori sarà quindi molto più efficace al pagamento
dei costi della crisi di una
qualsiasi forma di tassa patrimoniale
che colpisca la rendita dei ricchi.
La manfrina che viene
utilizzata ad oltranza su tutti gli organi
di informazione per convincere i lavoratori di essere i veri colpevoli della crisi è che il
paese non è competitivo a causa degli elevati prezzi interni (inclusi quelli
della pubblica amministrazione, la casta, la corruzione, la mafia e chi più ne
ha più ne metta): per il bene della nazione, per migliorare la competitività, per abbattere la
concorrenza sleale della Cina (voluta proprio da loro, dai ricchi, guarda caso,
ai tempi del WTO del 1995), bisogna
abbassare i prezzi senza però penalizzare troppo il cambio, per i motivi già
noti. E come si fa ad abbassare i prezzi e migliorare la competitività senza
variare i tassi di cambio? E’ inutile girarci attorno, bisogna parlare chiaro
alla gente (dicono loro), è necessario procedere rapidamente all’approvazione
di una serie di “riforme strutturali”, che tradotto in linguaggio terra terra
significa: tagli dei salari e delle tutele sindacali dei lavoratori. E l’unica
maniera per spingere i lavoratori ad accettare riduzioni del salario senza
troppe lagnanze è creare innanzitutto le condizioni
di emergenza e la pressione
mediatica tipica della catastrofe imminente: lo spread, la bancarotta
dello stato, il baratro, le cavallette, i marziani. Una volta che i salari
saranno stati cinesizzati, si passerà
all’effettiva riduzione dei prezzi,
anche se badate bene, questa misura non è affatto automatica e meccanica ma dipende dalle decisioni di un'altra categoria più specifica di rentiers, profittatori e privilegiati. I grandi imprenditori e
le corporations multinazionali che operano in regime di monopolio sono però molto restie a tagliare i prezzi dei loro prodotti dopo avere ridotto i salari, dato che
preferiscono di gran lunga aumentare i loro margini di profitto sulle spalle dei lavoratori piuttosto che
andare incontro ai sacri bisogni dei consumatori e della concorrenza.
Solo per la cronaca, oltre
al taglio dei salari ci sarebbe anche un’altra strada per migliorare la competitività
di un paese: aumentare la produttività,
cioè la quota di valore aggiunto nazionale riconducibile al singolo lavoratore.
Ora però, se sul primo metodo si può agire rapidamente (la Fornero ci ha
impiegato solo pochi giorni), sul secondo esistono diversi ostacoli perché sono
richiesti dei cambiamenti strutturali e tecnologici (nonché un miglioramento dal
lato della domanda e dei mercati di sbocco, come Alberto Bagnai e tutta la macroeconomia classica seria docet) del sistema economico, difficili se
non impossibili da attuare nel breve e nel medio periodo, in mancanza soprattutto
di investimenti sia sul versante
privato che pubblico. Quindi gira che ti rigira, quella parolina magica tanto
invocata dai tromboni della disinformazione, si traduce in un minore Costo del Lavoro per Unità di Prodotto
(CLUP), ovvero ancora una volta in un taglio dei salari dei lavoratori (in termini formali una
riduzione del numeratore del CLUP, mentre il denominatore, la produttività,
rimane invariata). Si scrive produttività, ma si legge macelleria sociale e
massacro della classe lavoratrice, come nelle migliori tradizioni delle lotte di classe che fin dagli albori
della storia si sono susseguite su questo pianeta.
In buona sostanza, i ricchi non devono perdere nulla a
livello monetario e finanziario dei loro patrimoni (quindi bassa inflazione, o
meglio ancora deflazione, e sostegno sostenuto da parte soprattutto della banca
centrale ai valori dei titoli di borsa, con continue immissioni di liquidità
nei “mercati” e operazioni di
acquisto all’ingrosso), mentre volenti o nolenti i lavoratori dipendenti,
pubblici o privati che siano, devono accettare di pagare dazio senza battere
ciglio e il modo più stringente per costringerli ai necessari tagli salariali
(per il bene del paese, beninteso!) è non ostacolare il dilagante aumento della disoccupazione. Per ovvia deduzione logica,
un elevato numero di disoccupati significa una maggiore concorrenza nel mercato nel lavoro e un maggior numero di
persone disposte ad accettare un salario minore per iniziare o ricominciare a
lavorare. Il debito pubblico in
questo senso agisce invece come un vero e proprio deterrente delle politiche deflative di austerità propugnate dai rentiers, dai loro circoli, dai think
tank generosamente finanziati, dalle organizzazioni corporative sovranazionali
(Trilaterale, Club Bilderberg, Aspen Institute e compagnia bella) che difendono
a spada tratta solo gli interessi di chi ha oggi davvero tanti soldi e può
finanziare questo arsenale di propaganda
e influenza capillare dell’opinione pubblica. Con un maggiore intervento
dello stato in economia in periodo di recessione, con la disponibilità dei governi ad ampliare i propri deficit pubblici, si avrebbe infatti un supporto notevole al reddito dei lavoratori,
sia in modo diretto, sia in modo indiretto tramite gli effetti espansivi del moltiplicatore fiscale, vanificando di fatto
tutti i tentativi estorsivi in atto. Ed è per questo motivo che il debito pubblico rappresenta da sempre il
peggior nemico dei rentiers:
qualcuno deve pagare i costi di una recessione e se non sono i lavoratori e le
piccole e medie imprese, quelle che magari si reggono in parte anche sulle commesse
delle amministrazioni pubbliche, allora devono essere i rentiers, i mercati finanziari, le banche, le grandi corporations. Ed è qui che entrano in
gioco personaggi squallidi come i
Reinhart e Rogoff di turno, che hanno il compito di tirare acqua al mulino dei propri mecenati,
padroni e committenti.
Senza fare troppa
dietrologia e complottismo, non è difficile immaginare che qualcuno dei think tank e delle associazioni sopra
citate abbia fatto in tempi non sospetti una telefonata ai due
noti economisti prezzolati per commissionare una ricerca mirata a dimostrare con tutti i mezzi possibili (veri o falsi, poco importa) gli effetti nefasti dell’elevato
debito pubblico. E il motivo per cui possiamo essere quasi certi che le
cose siano andate pressappoco così è appunto la grossolanità degli errori commessi da due riconosciuti
professionisti internazionali, che non possono essere in alcun modo
giustificati con la semplice svista o distrazione. Ma guardiamoli meglio questi
errori per capire davvero di cosa stiamo parlando e fino a che punto può
arrivare la malafede di questi
personaggi: roba che neppure uno studente quattordicenne al primo anno di
liceo o informatica potrebbe fare con tanta disinvoltura. Innanzitutto, c’è un
marchiano errore nel calcolo del tasso
medio di crescita economica del PIL per il periodo 1946-2009, riferito ai paesi
che avevano superato il rapporto di
debito pubblico del 90%. Se guardiamo la tabella Excel sotto e nello specifico la
quarta colonna, ci accorgiamo che per ottenere il valore medio negativo del -0,1%, i due economisti hanno considerato
soltanto i primi quindici dati, di cui solo 7 noti mentre gli altri 8 non
erano disponibili.
Inoltre il dato della Nuova Zelanda del -7,6% (aumentato arbitrariamente dai due economisti di uno -0,3% fino al -7,9%), che
ha peggiorato notevolmente la media, è quello relativo ad un solo anno di profonda
recessione per il paese (dovuta a cause strutturali ed internazionali difficili
da imputare all’elevato debito pubblico), ovvero il 1951, mentre è stato totalmente omesso il dato del periodo
1946-1949, quando in Nuova Zelanda si è assistito ad una notevole crescita del
PIL, nonostante (o magari anche grazie) il debito pubblico fosse molto
superiore al 90%. Se considerassimo pure questa correzione, il risultato
complessivo per la Nuova Zelanda sarebbe del +2,6% e la media reale per tutti gli 8 paesi considerati salirebbe al +2,2%, solo un misero punto percentuale in
meno rispetto ai presunti periodi “virtuosi”
in cui gli stessi paesi hanno mantenuto il debito pubblico al di sotto del 90%.
Tuttavia se guardiamo al grafico riassuntivo riportato sotto, vedremo già a
colpo d’occhio che la ricercata
correlazione fra l’alto debito pubblico e la bassa crescita non è per nulla
evidente, anzi se consideriamo i valori della mediana (che depura i dati
estremi come quello della Nuova Zelanda) noteremo come gli scarti fra una
situazione e l’altra sono davvero minimi e non tutti decrescenti, visto che i
valori del range 60%-90% sono superiori a quelli del range 30%-60%. Mentre
invece l’inflazione viaggia come al
solito per i fatti suoi, indipendentemente da ciò che accade in campo fiscale e
monetario, essendo maggiormente legata all’andamento
della disoccupazione, al livello di saturazione
della capacità produttiva e alle trasformazioni in atto in termini salariali
e contrattuali nel mercato del lavoro.
Fra l’altro, il campione di sole 20 nazioni sviluppate non risulta molto significativo
rispetto ai circa 200 paesi del mondo che si trovano in diverse condizioni
economiche e sociali (ma in quel caso alcuni stati africani con il loro basso debito pubblico e bassa crescita avrebbero rovinato il lavoro di manipolazione di Reinhart e Rogoff), con l’aggravante che il dato estrapolato per i periodi in
cui il debito pubblico ha superato il 90% viene calcolato in base a 8 sole
rilevazioni (di cui una palesemente falsata e inconsistente). Troppo poco per fornire una reale tendenza, che peraltro nemmeno c’è.
Ma per capire meglio la disonestà intellettuale
con cui Reinhart e Rogoff sono giunti alla conclusione sbagliata che l’elevato
debito pubblico causi una bassa crescita, possiamo anche dare un’occhiata
all’ultimo grafico in cui a modo loro i due economisti ricavano una loro personalissima retta di regressione o di
tendenza da una distribuzione molto dispersa di dati, stabilendo appunto
che ci sia un rapporto di proporzionalità inversa fra l’aumento del debito
pubblico e la riduzione della crescita economica. Qualunque metodo abbiano
usato per ricavare la retta di regressione (il più noto è quello dei minimi
quadrati), chiunque abbia un po’ di dimestichezza con l’inferenza statistica si
accorgerà subito che la curva risultante
non approssima bene la distribuzione dei dati, perché questi ultimi sono
molti distanti da essa sia verso la parte bassa che quella alta, con il solito affollamento
di dati nel range 30%-90% e una rarefazione nel range superiore al 90%. Detto
più sinteticamente: non c’è nessuna correlazione fra le due variabili, perché
per ogni valore di debito pubblico c’è
una stessa probabilità di avere situazioni di alta o bassa crescita.
Solo a titolo di esempio,
riportiamo sotto una retta di regressione che invece approssima bene la distribuzione
dei dati, in quanto questi ultimi sono poco distanti dalla retta, e stabilisce
in effetti una reale relazione di diretta
dipendenza fra le due variabili in esame.
Tuttavia, oltre agli
strafalcioni di calcolo palesemente indotti e manipolati per raggiungere un
certo obiettivo, c’è una questione più sottile da analizzare: qualora esistesse
realmente una correlazione fra debito pubblico e crescita, saremmo davvero così
certi che la direzione è quella che va dal debito alla crescita? Il debito pubblico è davvero la causa, la
variabile indipendente, mentre la crescita è l’effetto, la variabile
dipendente? Assolutamente no. Anzi, è molto più verosimile che la relazione
proceda in senso esattamente opposto, perché il ciclo economico in corso
(crescita o decrescita) mette in moto i cosiddetti stabilizzatori automatici,
entrate fiscali dirette sul reddito e uscite per sussidi di disoccupazione, che
fanno spontaneamente lievitare il debito
pubblico in periodo di recessione e contrarre il debito dello stato in fase espansiva. La crisi finanziaria iniziata
nel 2007 negli Stati Uniti dimostra plasticamente quanto abbiamo prima detto:
mentre tutti i maggiori stati europei e gli Stati Uniti stessi stavano
procedendo compatti verso politiche di consolidamento fiscale e la compressione dei debiti pubblici, è
scoppiata come un fulmine a ciel sereno (anche se in realtà c’erano diverse
avvisaglie di pericolo) la crisi bancaria
dei subprime, che ha costretto i
governi di mezzo mondo ad ampliare i propri deficit pubblici sia per il
meccanismo già citato degli stabilizzatori automatici sia per procedere ai salvataggi bancari tuttora in corso. E
la recessione è iniziata senza ombra di dubbio per problemi di debito privato in eccesso e non certo per il debito pubblico,
il cui aumento è stato solo una normale conseguenza del processo di contrazione
degli investimenti, deleveraggio,
recessione iniziato prima in ambito bancario e poi trasferitosi per diretto
contagio alla cosiddetta economia reale (il
fenomeno del credit crunch, della mancanza di credito alle imprese, deriva
innanzitutto da una precisa necessità delle banche di ridurre le esposizioni, rientrare
rapidamente dai prestiti concessi per coprire le perdite e rimborsare parte dell’ammasso
di debito accumulato negli anni di euforia finanziaria).
Se andiamo a restringere
l’analisi dei dati elaborati da Reinhart e Rogoff al solo periodo 2000-2009, noteremo che l’andamento del tasso medio di
crescita (o decrescita) del PIL è del tutto comparabile e simile sia nelle
situazioni in cui il debito pubblico eccedeva la fatidica soglia del 90%, sia
quando ci muoviamo all’interno del range 30%-90%. E con buona pace dei rentiers, terrorizzati dalla minaccia dell’inflazione, avremo anche
modo di appurare che nonostante l’aumento dei deficit pubblici, del debito
complessivo dello stato, delle operazioni di monetizzazione e iniezioni di
liquidità delle banche centrali, l’inflazione
è rimasta più o meno stabile ai suoi livelli minimi storici durante il
periodo che va dal 2009 al 2012. Perché il collegamento che l’approccio
biecamente monetarista dei rentiers
stabilisce fra la maggiore offerta di moneta e l’aumento dell’inflazione, così come quello fra debito pubblico e
crescita economica, semplicemente non esiste, è una pura invenzione accademica,
uno specchietto per le allodole che serve a confondere le acque e a raggiungere
il solito obiettivo dei rentiers: impedire
che lo stato intervenga nell’economia per sostenere
il reddito dei lavoratori e garantire una migliore redistribuzione della ricchezza.
Un discorso a parte invece
bisognerebbe fare per quanto riguardo i tassi
di interesse, perché qui entrano in gioco prepotentemente i regimi di cambio e di sovranità monetaria
adottati dai vari stati in questi ultimi quarant’anni. Se i paesi come Stati
Uniti, Giappone, Gran Bretagna, che hanno potuto avvantaggiarsi della loro
immutata sovranità monetaria e del supporto diretto delle loro rispettive
banche centrali, sono riusciti a finanziarsi a tassi di interesse bassissimi, quelli dell’eurozona e in
particolare della periferia (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda),
hanno dovuto accettare passivamente i
tassi più alti richiesti dai mercati, amplificando la tendenza verso la
crescita del debito pubblico già in atto. In Europa insomma l’attività di pressione mediatica e di
estorsione finanziaria attuata dai rentiers
a danno del resto della popolazione ha avuto maggiore campo fertile per
espandersi e radicarsi nella società, puntando soprattutto sull’introduzione
dell’euro e sulla sua difesa ad oltranza. Se ci fate caso infatti l’euro come
moneta unica e metodologia di organizzazione delle risorse, soddisfa tutte le caratteristiche richieste dai rentiers per tutelare i loro patrimoni:
bassa inflazione, cambio fisso, elevati rendimenti finanziari, ampia libertà di
circolazione dei capitali. E qui veniamo appunto all’ultima, ma non meno
importante, considerazione da fare sul lavoro dei due mistificatori di
professione.
Nello studio di Reinhart e
Rogoff non c’è nessun accenno ai cambiamenti avvenuti nel sistema monetario mondiale nel periodo 1946-2009. Sappiamo bene
infatti che nel periodo 1946-1971, ovvero prima del passaggio dal regime gold
exchange standard al sistema
monetario fiat money, l’unica nazione
realmente sovrana erano gli Stati Uniti,
mentre tutti gli altri paesi dovevano in qualche modo sottostare all’impegno di
mantenere il cambio fisso con il dollaro, rinunciando quindi a buona parte
della loro sovranità monetaria. Dal 1971 in poi, gli stati europei, dello SME
prima e dell’eurozona poi, hanno volontariamente abbandonato la pretesa di
riconquistare una piena sovranità monetaria, incatenandosi reciprocamente in un
sistema di cambi fissi prima e di moneta unica con banca centrale assolutamente
autonoma e indipendente poi. Ora, paragonare e assimilare il debito pubblico sempre solvibile di una
nazione sovrana con il debito
pubblico degli stati dell’eurozona continuamente a rischio di fallimento, è
operazione abbastanza ardita, che solo due economisti completamente miopi e sordi
a questo tipo di argomenti potevano mettere in campo. Ormai anche le pietre
sanno che uno stato a moneta sovrana
può ampliare a piacimento i livelli del debito pubblico e l’immissione di mezzi
monetari finché la propria economia e la bilancia dei pagamenti con l’estero
saranno in grado di assorbirli, mentre uno stato
a moneta non sovrana dell’eurozona non può fare praticamente nulla e deve
soltanto adattarsi ai vincoli imposti da Bruxelles e ai prestiti concessi dalle
banche private, che devono essere rimborsati fino all’ultimo centesimo tassando
i cittadini. Siamo proprio certi che il debito pubblico del 240% del Giappone
sia confrontabile a quello del 120% dell’Italia? Se è vero che entrambi i paesi hanno
vissuto un intero decennio di recessione o stagnazione, siamo proprio sicuri che
la causa sia da imputare ad un debito pubblico così diverso sia in dimensione
che in significato politico e finanziario?
Purtroppo le nostre domande
rimarranno nel migliore dei casi ignorate e nel peggiore ribaltate, perché i
nostri bravi economisti (non tutti per nostra fortuna) saranno impegnati a
prendere ordini dai rentiers e a
scrivere pagine e pagine di spazzatura
ideologica per dimostrare che l’economia
sia una scienza esatta, razionale, prevedibile in ogni sua parte. E da
buona scienza esatta, l’economia può essere riempita fino alla nausea di
vincoli matematici, costanti, leggi scientifiche che alla prova della realtà dei fatti risultano assolutamente false, sbagliate,
infondate. In fin dei conti gli economisti fanno il loro mestiere e siccome i politici
sono degli inetti e smidollati, cercano di indicare a questi cialtroni
impenitenti delle direzioni semplici e facili da seguire. E poco importa se l’obiettivo
di questa filantropica e ininterrotta attività
di consulenza sia la tutela di interessi finanziari di una minoranza e
scapito della difesa dei diritti costituzionali (e anche esistenziali) di tutti
gli altri, perché i politici non devono capire ma hanno soltanto bisogno di
numeri immediati e facilmente memorizzabili per turlupinare la gente: debito
pubblico del 90% (o addirittura del 60%), deficit del 3% (o addirittura
pareggio di bilancio), inflazione del 2% (o addirittura deflazione),
disoccupazione naturale da subire come se fosse una punizione divina o il
peccato originale da redimere per il bene dell’intera umanità. E grazie al
lavoro di smascheramento di Reinhart e Rogoff, abbiamo capito anche perché gli
economisti adorano così tanto i modelli matematici, anche quelli più
sofisticati e innovativi di difficile interpretazione: perché al contrario
delle leggi di natura o di diritto, i numeri hanno il vantaggio di poter essere
manipolati e strumentalizzati al fine di dimostrare l’obiettivo che si vuole
raggiungere, concedendo allo stesso tempo a questa disciplina prettamente sociale e politica un’aurea di razionalità e
determinatezza che la rende rispettabile agli occhi degli addetti ai lavori ed
inattaccabile dai neofiti.
Ma in fondo basterebbe
dire che con tutti i think tank, i papers, gli studi avanzati, gli
economisti non siano mai riusciti a spiegare cosa ci sia di razionale,
deterministico o efficiente nel fatto che l’1% della popolazione possieda il
50% della ricchezza, mentre una parte sempre maggiore del restante 99% muore di
fame, si suicida, non può condurre una vita dignitosa, per capire quello che
forse sappiamo già: “non c’è nulla di nuovo sotto il sole”.
L’economia è solo l’ultima arma utilizzata dalla nuova agguerritissima casta di
“sovrani”
per sottomettere ed affamare l’immensa massa di nuovi “sudditi”. E se vogliamo
davvero difenderci da questa inarrestabile guerra
alla nostra dignità e intelligenza, l’unica strada rimasta è quella di
armarci anche noi con i loro stessi strumenti e di combattere eroicamente sul
loro stesso campo di battaglia. L’esito finale di questo scontro epocale per la democrazia, la libertà, la giustizia non è
così scontato come sembra, perché dipende solo da noi e dalla nostra volontà di
capire. Per fortuna Reinhart e Rogoff sono stati ormai archiviati negli
scantinati della storia, ma state certi che fra poco altri nuovi mercenari accademici verranno allo scoperto per difendere il
palazzo e le ricchezze dei loro “sovrani”.
Estote parati!
Geremia.
RispondiEliminaIl tono grintoso e talvolta quasi aggressivo di questo interessante saggio, oltre che concorrere a rendere più convincente l'argomentazione, dà un'idea di quanto effimere, incerte, arbitrarie, ingannevoli e fallaci siano le dottrine macroeconomiche le cui elucubrazioni sono rese scientemente oscure e para-scientifiche da coloro che dissertano non con lo scopo di favorire il benessere della maggior parte degli umani, ma solo per supportare pianificazioni di rapina e di sterminio.
Io non canterei vittoria troppo presto.Continueranno a lavorare ad Harwad,ad essere tenuti in considerazione,saranno si smascherati sempre e comunque dai Piero Valerio,Bagnai,Barra Caracciolo,ma l'articolo continuerà tranquillamente ad essere citato senza che i vari Floris,Lerner, Santoro,facciano notare l'errore.Ricordiamo ciò che disse John Kennet Galbright "Milton Friedman è un uomo sfortunato,perchè le sue teorie sono state messe in pratica mentre lui era ancora in vita",eppure il sigor Milton gode ancora di fama prestigio e considerazione.Naturalmente si continuerà,ognuno a modo suo,a fare questa lotta,ma magari sarà la SStoria a spazzarli via o,come dice quarantotto,dovranno venire da oltreoceano a farci rinsavire.
RispondiEliminaPS a parte,i primi otto capitoli totalmente ideologici,il capitolo sulla crisi dei subprime,meritano comunque di essere letti a mio modesto parere.
Manco uno studente del primo anno di matematica fa errori così idioti...
RispondiElimina"L’economia è solo l’ultima arma utilizzata dalla nuova agguerritissima casta di “sovrani” per sottomettere ed affamare l’immensa massa di nuovi “sudditi”. E se vogliamo davvero difenderci da questa inarrestabile guerra alla nostra dignità e intelligenza, l’unica strada rimasta è quella di armarci anche noi con i loro stessi strumenti e di combattere eroicamente sul loro stesso campo di battaglia."
RispondiEliminaNon mi sembra un illusorio peana di vittoria, ma se mai un grido, un accorato e competente grido di allarme: pena la nostra stessa vita.
Chi ha in mano le chiavi dell'informazione di massa evita accuratamente di spendere tempo ed energie per dedicare i propri programmi a battaglie rischiose e potenzialmente prive di share. Del resto sono purtroppo argomenti astrusi, spiccatamente specialistici ed è invero già molto che esistano siti come questo che temo potrà contare su di un numero inadeguato di frequentatori. Sono sempre ancora troppo pochi quelli che si sono accorti dell'incombenza inquietante di una strategia di sottomissione subdola e , agli effetti pratici, praticamente incontrastabile.
Geremia
Io francamente non riesco proprio a capacitarmi del fatto che un lavoro così fatto male, così "burino", sia sopravvissuto non per un mese, ma addirittura per tre anni!
RispondiEliminaFogli Excel e medie o mediane su dati parziali, presi alla "come me pare", come a dire che per calcolare la luminosità media del cielo ignoro le stelle che non mi piacciono....
Pazzesco! E lavori del genere dovrebbero fornire le basi teoriche per reggere le sorti di intere economie nazionali?
Qua non c'è malafede, c'è una cosa ancora peggiore: sapere che le masse di pecoroni[e mi ci metto pure io tra quei pecoroni, laureato in ingegneria che lavora in una multinazionale aerospaziale, che sta muovendo solo ora i primi timidi passi per comprendere l'economia e la finanza] tanto non ci capiscono nulla e nemmeno hanno desiderio o voglia di studiare e capire quanto vengono presi per il culo.
Io che fino a pochi mesi fa, leggendo giornali italiani e vedendo Ballarò e Servizio Pubblico, pensavo di essere controcorrente e di "stare dalla parte del giusto" se appoggiavo gente come Prodi o Napolitano. Dio, quanto è dura la verità!!
Grazie per questo immenso blog!
Lorenzo
l'artico è frà una delle letture più belle di oggi ma devi trovare un modo più semplice perchè la gente capisca
RispondiEliminaUna piccola curiosità. I dati riportati in excel dove sei riuscito a trovali?
RispondiEliminaGrazie
Rogoff fa parte del Group of Thirty.
RispondiEliminaPurtroppo continuo ad avere il solito problema di risposta ai commenti (penso che sia dovuto a qualche aggiornamento di javascript oppure sono graditi suggerimenti da informatici più esperti di me...non ci vuole molto ad esserlo!!! Ma a proposito anche voi avete riscontrato ultimamente ad inserire risposte ai commenti già pubblicati???)
RispondiEliminaAd ogni modo, ringrazio tutti per gli apprezzamenti e le integrazioni che come al solito sono molto importanti come approfondimento del post...in particolare, per Vince Santelli che mi chiedeva dove avevo trovato i dati del file excel, si tratta di una rielaborazione dello studio di Reinhart e Rogoff e della successiva correzione dei tre economisti, fatta dall'economista Mike Konczal del Roosevelt Institute che può trovare a questo link:
http://www.nextnewdeal.net/rortybomb/researchers-finally-replicated-reinhart-rogoff-and-there-are-serious-problems
Grande articolo. Sono uno studente di economia, e quando voglio approfondire, mica leggo i libri che mi indicano i prof, ma vengo su questo sito e pochissimi altri.
RispondiEliminaE' incredibile come io sia d'accordo con tutto quello che scrivi. E' pure incredibile, sapere come molte persone ignorino queste cose...Come è anche incredibile che 2 economisti possano raccontarcela in modo cosi sbagliato...
Ma non mi sorprendo più, da un bel pò che ho capito come in realtà stanno le cose e dove nasce il potere e dove si forma..Non mi stupisco che uno studio simile sia stato fatto in questo tipo di università elitarie.
Purtroppo, come diceva prima un commento, possono permettersi di dire tutto e il contrario di tutto, perchè alla fine fine nessuno obietterà, dato che i loro dogmi sono considerati "sacri" e l'economia è troppo noiosa....
Continuo a leggerti con piacere.
Profonda stima.
Negli stati uniti hanno introdotto un'aumento delle tasse per i piu ricchi, aliasi >200K USD a year, ma allo stesso tempo son anche entrati in funzione i cosidetti "sequestations" ovvero tagli automatici di alcuni servizi pubblici. Comunque purtroppo che chi ha i soldi fa' quel che vuole non e' novita', penso che la "novita'" sia che siano riusciti a prendersi ancor di piu di prima.
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