martedì 23 aprile 2013

DIARIO DI UN SACCHEGGIO: ECCO COSA VUOLE VERAMENTE DA NOI LA GERMANIA


Qualche settimana fa, un po’ per caso e un po’ per curiosità, sono venuto a conoscenza di una notizia che mi ha parecchio colpito: l’associazione Eures Germania in accordo con quella italiana aveva organizzato un lungo tour in giro per la penisola per reclutare giovani lavoratori qualificati. Il suggestivo nome di questa selezione a domicilio era “Job of my life” e ha toccato le più importanti città italiane: Roma, Napoli, Milano, Bologna, Torino, Genova, Bari, Lecce, Padova, Verona, Catania. Durante il giro sono state raccolte circa 6.300 candidature, in particolare di ingegneri e tecnici specializzati fra i 18-35 anni, da proporre alle maggiori aziende tedesche. Il reclutamento non garantiva il posto di lavoro fisso ma solo la promessa che anche in caso di momentanea bocciatura i ragazzi sarebbero stati inseriti in un database, in attesa della fatidica chiamata dalla Germania. Analoghi programmi di selezione di giovani disoccupati di elevata formazione e specializzazione sono stati organizzati pure in Irlanda, Spagna, Portogallo. Ovvero nei paesi che sono stati più danneggiati dall’atteggiamento competitivo della Germania, che ha saputo meglio sfruttare le dinamiche di squilibrio commerciale e finanziario messe in moto dalla moneta unica.


Intendiamoci, questi progetti di cooperazione internazionale e di scambio di competenze e conoscenze sono molto interessanti ed efficaci, ma solo quando presentano caratteristiche di reciprocità, multilateralità e non sono a senso unico: dai paesi poveri e disastrati verso l’unica nazione ricca e vincente, e mai viceversa. Perché, allo stesso modo di ciò che accade con lo scambio delle merci e dei capitali, si verrebbe a creare all’interno dell’eurozona uno sbilanciamento di forza lavoro qualificata a vantaggio dell’unico grande paese in surplus e a svantaggio di quelli in deficit. Condannando in pratica questi ultimi alla regressione produttiva e alla marginalizzazione nei settori a scarso valore aggiunto e innovativo. E questa è solo l’ultima sfaccettatura del saccheggio in corso, che sta avvenendo in tempo reale, sotto i nostri occhi. Mentre noi siamo impegnati ad assistere alla seconda elezione di re Giorgio Napolitano II e all’imminente insediamento del prossimo governo Amato, personaggi cioè che sono stati tra i principali artefici della distruzione del tessuto produttivo e sociale italiano, fin dai tempi dell’ingresso dell’Italia nello SME del 1979, e oggi hanno il compito specifico di difendere e tutelare la classe politica corresponsabile del disastro. Gli italiani sono talmente illusi e imbesuiti da credere che coloro che hanno “scientemente” spinto il paese verso il baratro siano gli stessi a farlo riemergere dagli abissi: misteri della fede. Dove arriva l’idolatria mistica, la ragione per forza di cose deve arretrare.   

venerdì 19 aprile 2013

LE MENZOGNE DI REINHART E ROGOFF: IL DEBITO PUBBLICO NON E’ LA CAUSA DELLA RECESSIONE




In questi giorni sta montando un ampio dibattito a livello mondiale (del tutto ignorato in Italia, ma questa non è una novità, visto che noi abbiamo ben altre faccende a cui pensare, come votare nientedimeno che Romano Prodi, la Thatcher nostrana versione mortadella ruspante, al Quirinale: quando si dice il nuovo che avanza!) sugli errori commessi dai celebri economisti di Harvard Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff nel calcolo della correlazione fra alto debito pubblico e bassa crescita economica. Secondo la tesi e i dati ricavati dai due studiosi, quando il debito pubblico supera la soglia critica del 90% del PIL assistiamo ad una progressiva stagnazione o addirittura ad una recessione dell’economia. Il paper incriminato risale al 2010, “Growth in a Time of Debt”, ma solo oggi tre sconosciuti economisti dell’Università del Massachusetts, Thomas Herndon, Michael Ash e Robert Pollin, sono riusciti con un altro paper, dal titolo “Does High Public Debt consistently stifle Economic Growth? A critique of Reinhart and Rogoff”, a smascherare tutti gli errori di calcolo, alcuni dei quali davvero grossolani, compiuti dai due ben più noti e accreditati economisti. La vicenda ha del paradossale, perché soprattutto negli Stati Uniti il lavoro di Reinhart e Rogoff era stato fino ad oggi un punto di riferimento per tutti i sostenitori dell’austerità e del taglio dei deficit pubblici, imputando solo a questi ultimi la causa principale della bassa crescita economica. Ora per i cosiddetti “falchi del debito pubblico” rimangono solo due strade: o ritrattare tutto quanto permettendo al governo di attuare le necessarie manovre anticicliche di aumento dei deficit pubblici per far ripartire la crescita (cosa molto improbabile), oppure assoldare un altro gruppo di noti economisti per manipolare altri dati e confermare la loro tesi insensata.


Questa è l’economia, bellezza! Chi ha i soldi dice cosa è vero e cosa è falso, chi non ne ha non solo non ha diritto di parlare ma non può nemmeno entrare nelle statistiche e nei sondaggi, perché da che mondo è mondo solo chi spende fa economia, mentre chi non ha niente da spendere fa la fame. L’economia infatti è una disciplina molto strana che si occupa molto di più di quanti profitti o soldi spende un miliardario (perché questo fa alzare notevolmente il PIL), rispetto a quante ingiustizie e iniquità redistributive esistono nel mondo. Essendo una materia fatta ad uso e consumo di chi i soldi già ce li ha, è chiaro che i suoi maggiori esperti e cultori mondiali non fanno altro che sfornare studi su studi, papers su papers, libri su libri per irrobustire le ragioni e le istanze di chi gli ha consentito di diventare celebri. E purtroppo, qualche tempo fa, anche io ho partecipato all’orgia di successo dei due campioni della menzogna di Harvard, più per curiosità che per reale interesse, comprando il loro best seller “Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria”, rimanendo sconcertato dopo aver letto le prime pagine: con la tipica perentorietà di chi declama l’ovvio, i due economisti mettevano sullo stesso piano debito pubblico, debito privato e debito estero, facendo velatamente intendere che la crisi di un paese potesse nascere indifferentemente dall’aumento dell’una o dell’altra tipologia di debito. Cosa ovviamente falsa, ma tanto cara a chi li aveva convinti a suon di lauti compensi a scrivere quelle cavolate. Ma perché le persone ricche odiano così tanto il debito pubblico?

martedì 16 aprile 2013

LA FOLLIA DELL’EURO: I TEDESCHI SONO I PIU’ POVERI, MA A MORIRE SONO I GRECI


Due notizie mi hanno molto colpito nei giorni scorsi: i tedeschi sono tra i cittadini più poveri d’Europa, e le situazione sanitaria della Grecia ormai è prossima a quella di una nazione in guerra. Eppure, come ampiamente risaputo, i poveri tedeschi sono costretti da alcuni anni, attraverso i contorti meccanismi del MES e dei precedenti fondi di salvataggio europei, ad essere i maggiori finanziatori dei piani di salvataggio di Portogallo, Grecia, Cipro, Spagna, paesi economicamente disastrati dove gli abitanti sono però mediamente più ricchi di quelli “virtuosi”. Capite bene che quando in un sistema qualsiasi, economico, sociale, naturale che sia, si vengono a creare simili disfunzioni e anomalie si vede che c’è qualcosa di folle e sbagliato alla base. Oppure i dati non raccontano esattamente la realtà dei fatti. O meglio ancora, esiste oggi in Europa una miscela esplosiva chiamata moneta unica che partendo da un errore iniziale di costruzione sta facendo impazzire tutti i dati attualmente rilevati. La verità insomma è molto più complessa di come appare e il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli.  


Secondo uno studio della BCE, la ricchezza netta media (finanziaria e reale) delle famiglie (o meglio dei nuclei abitativi, di coloro che in altre parole vivono sotto lo stesso tetto) è così distribuita in ordine decrescente nell’eurozona: Lussemburgo €710.100, Cipro €670.900, Spagna €291.400, Italia €275.200, Germania €195.200, Olanda €170.200, Finlandia €161.500, Portogallo €152.900, Grecia €147.800. Tuttavia se prendiamo la mediana, ovvero il valore che divide esattamente a metà la distribuzione dei dati, vedremo che la differenza di ricchezza fra i tedeschi e il resto degli europei del sud si fa stranamente ancora più marcata: Cipro €266.900, Spagna €182.700, Italia €173.200, Grecia €101.900, Portogallo €75.200, Germania €51.400. Ciò significa innanzitutto che in Germania (ma anche a Cipro, nazione di banchieri falliti) c’è una piccola frazione di famiglie ricchissime che alza di parecchio la media, mentre la maggioranza della popolazione non possiede nemmeno una casa di proprietà. E questa circostanza conferma in pratica ciò che abbiamo spesso ripetuto sull’assurda e iniqua dinamica di funzionamento  dell’eurozona: gli straordinari surplus commerciali della Germania sono stati fatti soprattutto a spese dei lavoratori tedeschi a cui sono stati chiesti i maggiori sacrifici in termini salariali, mentre ad arricchirsi è stata sempre e soltanto una ristretta casta di banchieri e imprenditori tedeschi.

mercoledì 10 aprile 2013

DIFFERENZA FRA UNO STATO DEMOCRATICO A MONETA SOVRANA E UN NON STATO DELL’EUROZONA


Molte persone sono ancora ferme a considerare la sovranità monetaria come un semplice concetto economico-finanziario, da cui dipendono alcune scelte di politica monetaria e poco altro: secondo questo approccio generalista, la sovranità monetaria consentirebbe ai governi di "stampare" moneta creando inflazione, mentre la mancanza di sovranità monetaria premierebbe la cultura della stabilità sia fiscale che finanziaria e favorirebbe l’indipendenza delle banche centrali dai governi. Non è affatto così. La sovranità monetaria, oggi come oggi, è un vero spartiacque giuridico-istituzionale fra gli stati che possono ancora ambire ad essere democratici e quelli che ormai hanno deciso di calpestare le costituzioni nazionali in nome di non meglio precisati interessi privati e di casta. Continuare a presentare la sovranità monetaria come un principio retrogrado e nazionalista, superato ormai da più moderni ed efficienti meccanismi di gestione dei flussi finanziari, fa parte di un preciso disegno dei regimi oligarchici, che hanno interesse da una parte a separare i governi dalla loro naturale funzione monetaria e dall’altra a controllare i maggiori organi di informazione affinchè l’opinione pubblica venga sempre di più allontanata dalla verità dei fatti. La democrazia dai suoi doveri egualitari e redistributivi. I cittadini e i lavoratori dai loro diritti umani e sociali acquisiti nei secoli.


Non è un caso che all’interno del pastrocchio istituzionale dell’eurozona, dove la sovranità monetaria dei singoli stati membri è stata messa al bando per favorire la nascita del comitato d’affari facente capo alla banca centrale autonoma e indipendente BCE, continuano a susseguirsi infrazioni su infrazioni delle consolidate norme costituzionali che da un centinaio di anni almeno tutelano la dignità dei cittadini in Europa. A settembre scorso siamo rimasti con il fiato sospeso in attesa che la Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe si pronunciasse sulla legittimità del Meccanismo Europeo di Stabilità, mentre in questi giorni è stata la Corte Costituzionale del Portogallo a contestare alcune delle misure del piano di austerità del governo perché ampiamente discriminatorie nei confronti di certi cittadini (in particolare ci riferiamo ai lavoratori, pubblici e privati, e ai pensionati) a favore di altri (i maggiori beneficiari del comitato d’affari di Bruxelles: grandi imprenditori, politici, banchieri, rentiers). A ottobre prossimo toccherà invece di nuovo alla Corte Costituzionale tedesca emettere il verdetto di condanna o assoluzione sulle nuove iniziative di acquisto illimitato di titoli intraprese (almeno a parole) dalla BCE. Nessuna notizia perviene invece dalla Corte Costituzionale italiana, che si accapiglia sui cavilli più insignificanti dei decreti legislativi del governo e del parlamento ma non ha mai visto tutto ciò che è stato fatto alla nostra tanto osannata carta costituzionale negli ultimi trent’anni, con l’adesione agli scellerati accordi monetari europei. Da che mondo è mondo, spostare una trave è sempre stato molto più complesso e faticoso che giochicchiare con una pagliuzza. Soprattutto se quella trave è stata messa lì con la compiacenza e il tacito assenso di chi dovrebbe essere incaricato a spostarla.

mercoledì 3 aprile 2013

LA CRISI DELL’EUROZONA E LA FINE DELL’EURO IN QUATTRO PASSI


Mentre in Italia il peggiore presidente della storia della nostra Repubblica, Giorgio Napolitano, sta facendo i salti mortali per mantenere lo status quo e preservare la fallimentare classe dirigente eurista, fuori dai palazzi il processo di frantumazione dell’area euro procede a grandi passi. Il recente caso di Cipro ha fatto finalmente emergere a livello mondiale tutti i difetti di costruzione dell’unione monetaria più disastrata del pianeta ed ormai sarà impossibile per la tecnocrazia agire soltanto con la mistificazione e la propaganda mediatica per coprire e nascondere le magagne. In particolare il collasso di Cipro ha evidenziato due aspetti su cui si fondava il tentativo disperato dei menestrelli di regime di cambiare la realtà dei fatti: la crisi dell’eurozona non è una crisi di debito pubblico ma privato (bancario nella fattispecie, visto che in Europa i rapporti di debito-credito, risparmio-investimento sono intermediati principalmente dalle banche) e la liberalizzazione selvaggia e deregolamentata della circolazione dei capitali alla lunga crea insostenibili squilibri fra i paesi coinvolti. Adesso, soltanto i cialtroni patentati o gli analisti finanziari da bar dello sport potranno sostenere sfacciatamente in pubblico il contrario, senza essere zittiti con una sola parola: Cipro.


Ad ogni modo, chiunque voglia informarsi e capire cosa sta accadendo oggi in Europa e in Italia non può di certo affidarsi alla stampa e televisione nostrana, che si tiene ancora ben alla larga dalla tentazione di spiegare onestamente e criticamente agli italiani gli eventi che si succedono dentro e fuori i nostri confini, prefigurando dei possibili scenari futuri. A parte i blog e i siti di controinformazione, in Italia il regime di Repubblica, Corriere, Stampa, Santoro, Floris, Gabanelli (e derivati) fa ancora la voce grossa e la sordina messa da anni alla verità dei fatti funziona abbastanza bene, senza troppi affanni. Per fare ordine e capire qualcosa, bisogna armarsi di santa pazienza e rovistare fra la stampa estera, che ha sicuramente una visione molto più obiettiva e lucida degli eventi. A titolo di esempio, vi propongo questo articolo dell’analista Matthew O’Brien pubblicato sul giornale on line statunitense The Atlantic, che in modo semplice ed immediato chiarisce i quattro motivi principali per cui l’unione monetaria europea finirà per frantumarsi. Sperando magari che un giorno anche sui nostri giornali, piegati supinamente alle direttive e agli interessi delle grandi corporation e banche che detengono la loro proprietà, si possano rintracciare simili descrizioni.