martedì 12 marzo 2013

DALLA GENERAZIONE X ALLA GENERAZIONE PERDUTA PASSANDO PER IL VINCOLO ESTERO


Ricordo che quando ero ragazzo, nei primi anni novanta, la mia generazione veniva spesso etichettata come Generazione X: una definizione molto vaga, che lasciava intendere qualcosa di misterioso, ignoto, inafferrabile. Non vi nascondo che a quel tempo una tale marchiatura non mi dispiaceva affatto, perché si conciliava perfettamente con il mito della fuga e della libertà che anima i giovani: mentre voi adulti siete delle monotone costanti, noi giovani rappresentiamo un’incognita che può spaziare liberamente in tutto il campo del reale e dell’immaginario. Era bello essere un membro della Generazione X. Oggi che i capelli, quando ci sono, cominciano a diventare brizzolati, penso di avere capito quale fosse il significato di quella incognita. A nostra insaputa, noi ragazzi nati a cavallo fra gli anni settanta e ottanta eravamo il frutto di un esperimento sociologico-economico-finanziario. Eravamo i primi cittadini del dopoguerra che non avrebbero mai più avuto uno Stato democratico alle loro spalle, dei diritti costituzionali a cui aggrapparsi, ma semplici merci di scambio lasciate in balia dei mercati a contendersi un posto nel mondo in perfetta concorrenza con tutti gli altri giovani della terra, a qualunque latitudine si trovassero, a qualsiasi prezzo e condizione. Una concorrenza sempre al ribasso ovviamente, per la gioia della generazione dominante dei nostri padri e dei nostri nonni che era lì pronta a sfruttarci e a vivere di rendita sulle nostre sofferenze, i nostri sacrifici, le rinunce, la fatica.


Era il tempo del miraggio della Globalizzazione Economica Universale, presentata da tutta la propaganda e dai tromboni prezzolati della pseudo-cultura di sinistra, come il massimo approdo per la convivenza pacifica e civile fra i popoli. Eppure proprio in quegli anni scoppiavano guerre in ogni parte del mondo e ai più accorti di noi la globalizzazione cominciò a sembrare l’ennesima pagliacciata per coprire i misfatti della solita classe egemone politica-finanziaria. Non eravamo andati troppo lontano dalla verità. Quando crollarono le Torri Gemelle nel 2001 la Generazione X cominciò ad avere il primo scossone dal torpore e molti di noi iniziarono a sperimentare sulla loro pelle cosa significano in realtà parole un po’ astruse come flessibilità, privatizzazione, liberalizzazione dei prezzi, degli scambi, dei salari, mercato unico mondiale, deregolamentazione selvaggia della finanza. Quello che era un sospetto cominciò a diventare una certezza: la definizione con cui ci avevano marchiato non nascondeva nulla di intrigante o misterioso, ma era la semplice stringa di un’equazione ad una variabile. Un’equazione che ormai è stata risolta per sempre. O quasi.



La soluzione però a questa equazione non è stata fornita da noi membri della Generazione X, ma da uno di quegli stregoni alchimisti che qui in Italia sono andati per la maggiore e nello specifico è stato fra i più convinti sostenitori dell’ineluttabilità dell’esperimento genetico, fin dai tempi dell’ingresso dell’Italia nello SME (Sistema Monetario Europeo) del 1979. Quando Mario Monti qualche mese fa ha dichiarato senza troppi giri di parole, con una crudezza che sfiora la crudeltà, che la generazione dei 30-40 anni di oggi è una Generazione Perduta, tutto è cominciato ad apparire molto più chiaro. L’incognita è stata risolta, divenendo anche lei una minacciosa costante. La Generazione X è in realtà la Generazione Perduta, non ci sono più speranze per lei e bisogna concentrarsi sulla prossima generazione di giovani, per cominciare a turlupinare anche loro con falsi miti e vane speranze. Coloro che ci hanno preceduto e speculano sulle nostre sconfitte umane, professionali, esistenziali, hanno già decretato il verdetto. Per non perdere le rendite di posizione e il diritto a governare le nostre vite, ci hanno massacrato con una serie infinita di menzogne e mascalzonate che non hanno precedenti nella storia umana (qualcosa di simile ma molto più rudimentale l’umanità lo ha conosciuto nel medioevo, intorno all’anno mille) e meriterebbero un Tribunale Marziale ad hoc per essere giudicate con la dovuta imparzialità ed obiettività.


Per portare avanti ed edulcorare i loro programmi di macelleria sociale si sono serviti di un’agguerrita propaganda mediatica piena di millantatori, salvatori della patria a comando, buonisti ipocriti, paternalisti per tutte le stagioni, indagatori del nulla e depistatori di professione, guidata dai capiscuola Santoro, Floris, Vespa, Lerner, Gruber, Gabanelli, Annunziata, Saviano, Fazio, Dandini, Bignardi. Il nemico ci è stato cambiato giorno per giorno per confonderci: prima era Craxi, il cinghiale, poi Berlusconi, il pervertito, Saddam Hussein, Osama Bin Laden, Milosevic, Gheddafi, Chavez, la Cina, la Merkel. Mentre i veri nemici della nostra Italia e della nostra Generazione erano molto più vicini di quanto pensassimo e avevano le facce seriose, rispettabili e rassicuranti di Prodi, D’Alema, Veltroni, Monti, Ciampi, Padoa Schioppa, Dini, Tremonti. Mai la nostra nazione, neppure in tempi antichi, aveva partorito una genia così spietata e compatta di mercenari e collaborazionisti venduti ad interessi sempre diversi da quelli nazionali.


Se una colpa può essere addossata alla Generazione Perduta è quella dell’ingenuità. Noi ragazzi spensierati degli anni ottanta e novanta ci siamo fidati di gente che in apparenza pareva tanto competente e indottrinata. E lo erano purtroppo e lo sono anche oggi in effetti, ma tutti dalla parte sbagliata, dalla parte del pensiero unico che distrugge i popoli, la coesione sociale, le generazioni, per consentire la sopravvivenza di una ristretta cerchia di profittatori e prenditori d’accatto. Si sono fidati di loro anche i piccoli e medi imprenditori italiani, l’ossatura portante del nostro paese, quelli che non hanno avuto l’accortezza di aggrapparsi a qualche cordata di speculatori o banchieri d’assalto per fare il salto di qualità, per entrare anche loro nei favori della classe dominante europeista. Quello che non era riuscito in Unione Sovietica con i burocrati della Duma, a partire dal 1979 è stato realizzato in Europa grazie ai tecnocrati di Bruxelles. La democrazia, che appariva ormai una conquista permanente per i popoli, veniva nuovamente messa in discussione e scalzata da una forma molto più sofisticata, raffinata, impalpabile di dittatura: quella finanziaria, quella che ti impone le scelte impopolari in virtù di vincoli esterni creati ad arte, misure di emergenza dettate dai mercati, dogmi scellerati e credenze popolari, senza alcuna logica e poco spargimento di sangue. A parte i suicidi per disperazione o gli omicidi per follia. Esperimento riuscito, il programma può continuare: la Generazione X è stata abbattuta e ora possiamo tranquillamente passare alla Generazione Y. E poi a quella Z, T, U, V, alfa, beta, gamma. Una vale una, l’omologazione mercantilista non conosce differenze o trattamenti di favore.


Eppure, oggi ho sempre di più l’impressione che qualcosa non abbia funzionato bene nel dosaggio dei calmanti e degli anestetici. La mia Generazione seppure percossa e avvilita, ancora si dibatte moribonda nel mezzo del coma vegetativo. Questa votazione in massa per il Movimento 5 Stelle è stato soltanto il primo gemito, un sussulto di vita che potrebbe anticipare l’arrivo di un’onda d’urto impetuosa che avrà bisogno ancora di qualche anno per distendersi in tutta la sua potenza e ampiezza. Beppe Grillo, per quanto megafono indispensabile e porta girevole per la stanza dei bottoni, non fa parte della Generazione X, non la comprende fino in fondo, la sua lotta eroica sembra più che altro un urlo di vendetta verso i coetanei che lo avevano troppo frettolosamente isolato, emarginato, costretto al silenzio. I suoi metodi sono spiccioli e rozzi, al pari di quelli dei suoi presunti avversari politici. Qualcosa Grillo la afferra qua e la nell’aria, ma il grosso della contesa gli sfugge.


Qui non sono più in ballo i costi della democrazia, gli sprechi, le caste, ma l’esistenza stessa delle strutture istituzionali e fondamentali di una democrazia moderna. Lo scopo non è tanto quello di arrivare al potere, ma cambiare le forme con cui viene amministrato oggi il potere, i metodi di redistribuzione dei redditi, i limiti e lo spazio di manovra che devono avere oggi e in futuro lo stato sociale, le tutele e i diritti di chi rimane indietro. Grillo ha avuto il merito di portare alcuni giovani rappresentanti della Generazione X in parlamento, ma adesso ognuno di loro dovrà avere la forza di farsi portavoce delle vere istanze di cambiamento che ci animano fin dalla nascita, dal momento in cui improvvisamente cominciò ad aggirarsi in mezzo a noi lo spettro intramontabile della “crisi”. Il reddito garantito di cittadinanza può essere un primo passo per arrivare a capire che qui in Italia ormai non si possono più fare politiche economiche espansive a favore della cittadinanza, a causa del pareggio di bilancio, della perdita della sovranità monetaria. Dell’ingerenza sempre più profonda e massiccia della guida sovranazionale sulle scelte di politica interna. Se la Generazione X vorrà davvero riscattarsi dovrà iniziare a riprendersi tutto ciò che gli era stato tolto a partire dal 1979, con l’ingresso nello SME.


E non parlo solo di cose concrete, atti politici, cambiamenti economici e finanziari. Ma di veri e propri paradigmi culturali. Una parte della nostra storia e della nostra tradizione millenaria di popolo, di continente multietnico e multiculturale è stata sottoposta a censura e sottratta alla nostra vista. I migliori maestri del passato sono stati ostracizzati. Leggete bene cosa diceva John Maynard Keynes nel lontano 1929 a proposito della disoccupazione: “Può sembrare saggio starsene seduti a scrollare il capo. Ma, mentre noi aspettiamo, l’inutilizzata capacità produttiva dei disoccupati non si accumula a nostro credito in una banca, disponibile per l’impiego in un momento successivo. Essa si tramuta irrevocabilmente in spreco; è irrimediabilmente perduta”. E Keynes era pur sempre un conservatore moderato, un economista classico, non un pericoloso sovversivo.


Tuttavia le sue parole appaiono oggi rivoluzionarie, di una modernità sconvolgente rispetto alla melassa putrida e anacronistica che siamo abituati ad ascoltare dai menestrelli del pensiero unico neoliberista, sia della presunta destra che sinistra e perfino dei movimenti cosiddetti antagonisti. Quelli che oggi impropriamente e indegnamente si definiscono “riformisti” sono dei reazionari in confronto a Keynes, dei nani in presenza di un gigante. Inutilmente hanno cercato di far credere alla mia generazione che nel passato lo scontro fosse soltanto fra due sole fazioni, fra gli schieramenti devoti ai profetici moniti di Marx e i sedicenti fautori della modernità globale del mercato. Senza vie di mezzo, mezze misure. Mentre ormai appare chiaro a tutti che non è così: esiste una modernità in Marx ed è sempre esistito un modo equilibrato per governare il mercato verso le direzioni che arrechino maggiori vantaggi per l’intera collettività. Non solo benefici esclusivi per una ristretta casta di privilegiati ed oligarchi, a danno delle masse. Capirà mai Grillo quali sono i veri sprechi contro cui dovrebbe rivolgere la sua battaglia di denuncia e di civiltà? Non quelli economici, finanziari, che sono solo delle semplici conseguenze, dei corollari, delle fredde voci di bilancio che hanno soltanto valore statistico o segnaletico, ma quelli umani, generazionali, etici, giuridici, quelli che dovrebbero stare al di sopra di qualsiasi scelta politica ed economica. Dubito che lo capirà. Lui non conosce i disagi vissuti dalla mia generazione. Ad occhio e croce, Grillo pensa ancora che i vincoli di bilancio, il debito pubblico, lo spreco finanziario abbia lo stesso valore della vita umana, si misura con gli stessi ordini di grandezza. Non è così e mai lo sarà.  


La Generazione X dovrà risorgere dalle ceneri del suo decennale oblio rinnegando i cattivi maestri da cui si è lasciata abbindolare o guidare per inerzia e riscoprendo con calma tutte le grandi menti che hanno illuminato di intelligenza e lungimiranza il cammino della nostra civiltà. E non parlo soltanto di celebrità come Keynes o Marx, ma anche di sconosciuti e anonimi professori e studiosi di provincia, che per lungo tempo hanno dovuto vivere nell’indifferenza più assoluta, nell’isolamento completo, lontani dai riflettori della ribalta pubblica, per far posto a personaggi indecenti e impresentabili come i vari Alesina, Giavazzi, Monti, Zingales, Boldrin, Giannino. A tal proposito, vi propongo di seguito l’introduzione e la conclusione di un’analisi molto lucida e interessante (nonché discutibile in ogni sua parte, come le opere più riuscite dell’intelligenza e dell’ingegno umano) trovata per caso scartabellando su internet, fatta dal professore di politica economica Concetto Paolo Vinci nel lontano 2000, molto prima che il disastro annunciato dell’euro e dell’unificazione monetaria venisse traumaticamente alla luce. Mi sembrava giusto rendere omaggio ad una voce che forse ai suoi tempi è stata bruscamente zittita e redarguita, perché troppo fuori dal coro. Parlo con rammarico, dato che oggi avrei pagato il doppio delle tasse universitarie per avere un professore così. Mentre anche io purtroppo, come molti dei miei coscritti della Generazione X, ho avuto pessimi maestri e inqualificabili professori. E tutto quello che so oggi ho dovuto impararlo da solo, da perfetto autodidatta, testandolo sulla carne viva e a sangue caldo.                         



VINCOLO ESTERO E POLITICA ECONOMICA NEGLI ANNI NOVANTA

Di Concetto Paolo Vinci


1. INTRODUZIONE

Sebbene si possa obiettare che è ancora troppo presto per formulare un giudizio su alcune misure – in particolare quelle adottate dagli ultimi governi – per il fatto che esse ancora non hanno manifestato per intero i loro effetti, si è tuttavia, ritenuto procedere alla stesura delle presenti note, nella convinzione che, tranne che per imprevedibili cambiamenti, le vicende economiche degli anni Novanta sembrano ormai così ben delineate da consentire una valutazione complessiva degli eventi economici del decennio appena trascorso. Prima di procedere nell’analisi della politica economica italiana, sono necessarie alcune osservazioni di carattere preliminare, sugli anni che hanno preceduto l’attuale decennio.


Sebbene possa apparire ovvio che non sia corretto discutere gli effetti di misure di politica economica prescindendo dalle condizioni economiche di partenza, merita ricordare che tale questione di metodo ha ricevuto solo di recente quella attenzione che deve essere riservata a questo tipo di analisi. La sostanza di queste considerazioni può essere approfondita con efficacia attraverso la citazione di alcuni brani di recenti saggi pubblicati a cura di J. P. Fitoussi (1995, pag. XXI) il quale scrive tra l’altro nella sua introduzione:

Vi è un assioma universalmente accettato dagli economisti, che io propongo di chiamare l’esistenza di un metalinguaggio, secondo cui le relazioni macroeconomiche devono avere fondamenti microeconomici. Questo assioma stabilisce sin dall’inizio la subordinazione dell’approccio macro a quello micro, ed allo stesso tempo classifica ed ordina le argomentazioni economiche riconoscendo implicitamente che la microeconomia è essa stessa ben fondata. Una tale convinzione si è spinta così avanti, che tanti economisti pensano che sia sufficiente studiare un’economia alla Robinson Crusoè, per comprendere alcune importanti (macro) proprietà delle nostre reali economie, specialmente con riferimento alla comprensione ed analisi del ciclo e della crescita. Correndo il rischio di ribadire l’ovvio, io, al contrario, enfatizzerò il fatto che le istituzioni forgiano la condotta microeconomica. La reazione ottimale di un agente non dipende soltanto dal suo vincolo di bilancio, ma dipende dal contesto istituzionale e da come lo stesso si sia andato evolvendo, dalle regole del gioco comunemente accettate nella società in cui il soggetto si trova a vivere ed operare, e dal suo grado d’altruismo.


Ancora, nel primo saggio del volume in questione, riguardante il modello cui la Russia avrebbe dovuto ispirarsi nel suo processo transizione, Blinder (1995, pagg. 3-4 e 21-22) afferma:

Tutti noi siamo a conoscenza del fatto che l’economia neoclassica è più adatta ad analizzare posizioni di equilibrio che fasi di transizione.…Il cosiddetto problema della transizione è suddiviso utilmente in due domande:

1. dove vogliamo andare?

2. Come possiamo passare da qui a lì?


Si suppone che l’analisi economica sia in grado di fornire buone risposte alla prima domanda, ma cattive sono le risposte per la seconda domanda. E ancora, mentre ognuno sa che la risposta alla seconda domanda dipende dalle condizioni iniziali, la risposta alla prima non fa una tale supposizione. Ma io temo di aver tracciato la dicotomia tra l’analisi di equilibrio e la dinamica della transizione troppo drasticamente. Dopo tutto, nei sistemi biologici (ed in alcuni fisici), il sentiero da cui si parte influenza la posizione cui si approda. Voglio argomentare adesso che la risposta alla prima domanda, può dipendere pure dalle condizioni iniziali. La ragione di ciò parte da una semplice osservazione: se esiste più di un equilibrio vitale, quello che la società sceglie – consciamente o via la mano invisibile – può dipendere dalla sua storia, dalla sua cultura, o anche da eventi accidentali. Dove si arriva può dipendere anche da dove si parte.


Infine, sempre nello stesso volume del saggio sul programma stabilizzazione d’Israele nel 1985, D. Patinkin (1995, pagg. 43-46) scriveva:


Una semplice verità finale di economia monetaria è che la condizione cruciale per il successo di un programma di stabilizzazione è che esso goda di credibilità agli occhi del pubblico. E nel giugno del 1985 c’erano sicuramente fattori che militavano contro la creazione di una tale credibilità. In particolare, via via che l’inflazione accelerava nei primi anni ottanta, il governo aveva più volte proclamato l’adozione di un programma in grado di bloccare l’inflazione. Nella gran parte dei casi questi programmi erano basati su pacchetti che implicavano il blocco dei prezzi, e l’adozione di una politica dei redditi fondata sul blocco dei salari. Essi erano accompagnati da ferme dichiarazioni da parte dei ministri delle Finanze circa le loro rispettive intenzioni di tagliare le spese governative e quindi il deficit, dichiarazioni a loro volta accompagnate da corrispondenti dichiarazioni della Banca d’Israele sull’adozione di una stretta monetaria.


Ma queste dichiarazioni non erano rispettate, ed i programmi, uno dopo l’altro, fallivano. La domanda sorge a questo punto: dopo questi precedenti di fallimenti così scoraggianti, perché il programma di stabilizzazione di Giugno-Luglio 1985 raggiunse la necessaria credibilità?...A ciò occorre aggiungere un altro importante fattore. Non si può comprendere il successo del programma di stabilizzazione di Israele senza tenere conto del ruolo cruciale giocato dalla congiuntura politica unica in cui il Governo adottò il programma. In particolare, nelle elezioni che avvennero alla fine del Luglio 1984, nessuno dei due maggiori partiti, il Labour ed il Likud, ottenne una maggioranza stabile. Di conseguenza, dopo alcune settimane d’inutili tentativi, le due parti formarono a metà Settembre un governo di unità nazionale. Il dichiarato obiettivo di questo governo d’unità nazionale fu il ritiro dell’esercito israeliano dal Libano e la lotta serrata all’inflazione.


Nella convinzione della rilevanza di questo tipo di considerazioni, l’analisi delle azioni di politica economica realizzate nel nostro Paese può essere introdotta con alcune riflessioni contenute in un saggio di Arcelli e Micossi (1997, pagg. 295-296):


All’inizio degli anni ottanta la situazione economica italiana presenta un quadro complesso, a causa degli effetti destabilizzanti degli shock petroliferi e delle spinte inflazionistiche alimentate dalla spesa pubblica e da un’aggressiva politica salariale. I disordini sociali, il terrorismo e l’instabilità politica dei cosiddetti anni di piombo, hanno contribuito ad allontanare progressivamente il nostro sistema dal paradigma di un’economia di mercato. In sintesi, il quadro che si presenta è il seguente. Le autorità governative e monetarie stentano a controllare l’economia attraverso l’utilizzo di strumenti di politica economica tipici dei sistemi economici aperti e soggetti alla disciplina di mercato, e ricorrono a divieti sorretti da norme penali, nonché a vincoli amministrativi.


Il controllo valutario raggiunge punte estreme, e quasi ogni violazione è soggetta a sanzione penale; vi è un controllo diretto del credito che si attua con regolamenti amministrativi mediante l’imposizione di massimali sugli impieghi bancari e vincoli di portafoglio. I salari sono fortemente indicizzati alle variazioni dei prezzi, attraverso un meccanismo di scala mobile che trasmette rapidamente e con effetti di livellamento sui salari gli impulsi inflazionistici. L’indicizzazione tende a diffondersi a tutte le grandezze economiche; ne vengono colpiti pesantemente quei limitati segmenti in cui il processo di indicizzazione è in ritardo e su cui l’inflazione scarica le tensioni. Nel sistema finanziario ci si avvia ad un sistema di allocazione delle risorse molto vicino a quello di un’economia pianificata centralmente, le banche perdono le caratteristiche di imprenditorialità e vengono soggette a vincoli sempre più estesi che soffocano ogni forma di concorrenza.


L’innovazione finanziaria, ove si verifichi, richiama l’introduzione di nuovi vincoli amministrativi volti ad impedire l’aggiramento dei vincoli preesistenti. Si è giunti ad un punto in cui il dilemma tra economia di mercato ed economia pianificata diventa scelta ineludibile...Gli anni ottanta vedono un lungo e progressivo sforzo di recupero degli strumenti tradizionali da parte delle autorità monetarie che pervengono, dapprima ad un controllo indiretto del credito, e poi all’affermazione di un ruolo sempre più rilevante dei mercati finanziari. L’eliminazione dei vincoli amministrativi sul credito, il successo di accordi con i Sindacati e l’eliminazione delle forme più esasperate della scala mobile, sono a fondamento, insieme alla gestione dello SME, di un formidabile rientro dell’inflazione e dell’eliminazione delle indicizzazioni più dannose. Non migliora invece il bilancio pubblico a cui viene addossato l’onere di smussare molte tensioni sociali....


Senza cercare di stabilire se le affermazioni di Arcelli e Micossi debbano essere totalmente condivise, resta fuori da ogni dubbio che gli anni Novanta iniziano dopo un decennio che può essere indicato (Signorini e Visco, 1997) come un decennio di disinflazione ed accumulo degli squilibri. Queste caratteristiche si riflettono e si ritrovano però anche nel decennio qui considerato che inizia sulla scia di un periodo di disinflazione (carattere che si protrae nel decennio e peraltro non del tutto concluso, giacché in termini relativi l’inflazione italiana risulta ancora superiore a quella dei principali partner europei) ed al permanere di gravi squilibri in corso di formazione e consolidamento.


Esaminando la situazione dell’economia italiana all’inizio del 1990, la prima questione da affrontare riguarda il processo di disinflazione. Infatti, con il secondo shock petrolifero (1979) l’inflazione tornò a far salire la variazione dei prezzi al consumo oltre il 20 per cento. Il forte aumento del prezzo del petrolio determinò un vistoso rallentamento dello sviluppo in tutti i paesi industrializzati, ed in Italia il volume delle esportazioni subì una riduzione di circa l’8 per cento. La risposta in termini di politica monetaria e del cambio fu rapida ed efficace, con una riduzione dell’inflazione al di sotto del 9 per cento nel 1984. La decelerazione proseguì anche negli anni successivi diminuendo fino a circa il 6 per cento nel 1990. Il cambio nominale della lira fu adeguato solo parzialmente, e con ritardo, al più rapido aumento dei prezzi interni rispetto agli altri paesi della Comunità economica europea. La politica monetaria e creditizia mirò a non assecondare un’eccessiva crescita della domanda interna, tale, da determinare oltre ad ulteriori rialzi dei prezzi interni, squilibri gravi nei conti con l’estero.


Al rallentamento dell’inflazione contribuì anche il mantenimento di una maggiore moderazione salariale, conseguenza sia del mutamento del clima delle relazioni industriali, che dell’aumento del tasso di disoccupazione (primo grande squilibrio). Il secondo grande squilibrio è rappresentato dal peggioramento dei conti pubblici: la sequenza di deficit pubblici determinò una crescita del rapporto debito pubblico/PIL dal 60 per cento al 100 per cento nel 1990. In conclusione, all’inizio dell’ultimo decennio di questo secolo, l’Italia si presenta con un impegno ingombrante e stringente, l’adesione allo SME (di cui si dirà nel prosieguo), e con molti elementi di debolezza, tra cui: 1) l’elevato tasso di disoccupazione; 2) lo stato di dissesto della finanza pubblica; 3) il processo di disinflazione in ritardo rispetto ai principali partner europei; 4) una situazione non soddisfacente del settore industriale (a cui la stabilità del tasso di cambio reale non ha certo fatto bene).


4. ALCUNE CONSIDERAZIONI E RIFLESSIONI CONCLUSIVE


Le vicende dell’economia italiana dell’ultimo decennio possono essere utilizzate per considerazioni e riflessioni di carattere generale, che, in qualche modo, si riallacciano alle osservazioni contenute nell’introduzione del presente scritto. Nelle pagine precedenti si è a più riprese sottolineato che, di fatto, le condizioni iniziali hanno enormemente condizionato le misure di politica economica attuate fino ad evidenziare la circostanza che governi ritenuti agli antipodi abbiano, di fatto, adottato politiche in ultima analisi simili. Per molti il ricorso alla terminologia vincolo estero potrebbe suggerire l’idea della ineluttabilità della via da percorrere, nel senso di indisponibilità di alternative di risanamento in grado di evitare all’economia italiana una disastrosa crisi finanziaria (le avvisaglie del 1992-93 vengono spesso evocate). Detto in altri termini, come più d’uno ha obiettato, se il vincolo estero per il decennio era rappresentato dall’adesione all’Accordo di Maastricht, era (è) realistico pensare ad un Italia fuori dall’Unione monetaria? Il quesito implica anzitutto una riflessione.


In primo luogo va detto che qualche paese europeo – la Gran Bretagna – finora si è sottratto all’Unione monetaria e non sembra che ivi si siano verificati disastri finanziari. È altrettanto vero che la Gran Bretagna ha relazioni finanziarie internazionali tali da non renderla assimilabile completamente all’Italia, ma non si può negare che il restare, almeno per qualche anno ancora, fuori dall’euro era un’alternativa praticabile al fine del perseguimento di differenti politiche economiche, quanto meno diverse sotto il profilo temporale. Il riferimento temporale suggerisce immediatamente una riflessione teorica.


In molta teoria economica (come osservato da Blinder) la durata temporale e l’impatto di misure che differiscono non nella natura ma nel profilo temporale non è preso in considerazione, dando per scontato che sul benessere complessivo il profilo temporale non abbia influenza rilevante. Rimane, in ogni caso, la circostanza che pochi sono in grado di giudicare il profilo temporale prescelto rispetto a tanti altri possibili. Ancora, in termini strettamente e rigorosamente economici, un’Unione monetaria che coinvolge paesi in diverse situazioni (ad esempio Italia e Germania) richiede, come ampiamente riportato in quasi tutti i manuali (in De Grauwe, ad esempio), un percorso di convergenza, ma nessuno indica dove si situa la posizione di convergenza. Per uscire dal generico è noto a tutti che i criteri di Maastricht furono forgiati sulle condizioni e sulle richieste della Germania, ma economicamente nessuno si è assunto l’onere di dimostrare l’ottimalità di una tale decisione (l’esperienza dei primi due anni di euro sta contribuendo a sfatare la convinzione che la via scelta fosse la migliore). Non è il caso di spingersi oltre su una via lastricata di se e ma, tuttavia, l’esperienza sta indicando quanta cautela occorrerebbe adoperare nell’accettare come verità inconfutabili alcune teorie economiche solo perché oggi vanno per la maggiore.


La riflessione di cui sopra suggerisce un’ulteriore domanda. Astraendo dalla questione se quella perseguita fosse la via migliore per costruire l’Europa (e diversi sono coloro che non la pensano così), la circostanza a cui pensiamo riguarda la sicurezza con cui molti politici ed economisti italiani giurano sul fatto che una volta perseguiti disinflazione e risanamento della finanza pubblica, la ripresa della crescita economica e la riduzione della disoccupazione risulteranno un inevitabile corollario. Da questa convinzione se ne trae la conclusione che comunque una politica di riduzione del deficit e del debito pubblico siano condizioni indispensabili per la ripresa economica nazionale, e cioè il vincolo estero di fatto non sarebbe una condizione imposta dall’esterno, ma una via obbligata per l’eliminazione degli squilibri cumulati.


In quest’ultima conclusione si può rilevare tutto il divario che oggi ci separa dal concetto della finanza funzionale, che sulla scia della lezione keynesiana (cfr. A. Lerner, 1951), era stato tanto propagandato in questo dopoguerra. Certo, anni di dissipatezza finanziaria e sprechi hanno via via eroso la fiducia nell’intervento pubblico in economia, rendendo plausibile la convinzione del risanamento della finanza pubblica quale premessa per la ripresa della crescita. Per quanto attraente possa sembrare questa convinzione dovrebbe quanto meno fornire risposte rassicuranti a questioni quali:

– un decennio di risanamento finanziario pubblico con tagli massicci agli investimenti pubblici, e sicuri pregiudizi al grado di infrastrutturazione pubblica può essere considerata premessa ad una ripresa economica (anche quella fondata solo ed esclusivamente sull’iniziativa privata)?

– I ridimensionamenti delle spese che la ricerca scientifica, l’università e la scuola hanno subito come si collocano nelle prospettive di sviluppo tecnologico del nostro sistema economico?

– La persistenza dell’attuale pressione tributaria è compatibile con lo sviluppo produttivo?


Fino a quando non saranno fornite risposte convincenti a questi, e ad altri simili, quesiti, continueranno a sussistere dubbi su come potrà essere innescata una fase espansiva, anche alla luce di grosse nubi che vanno addensandosi sull’economia internazionale. Si può a questo punto affermare che se è vero che una politica di bilancio espansiva non significa favorire la crescita, è altrettanto vero che è tutta da dimostrare la capacità espansiva di una prolungata fase di bilancio pubblico restrittivo. Quest’ultima conclusione si salda inevitabilmente al problema dell’elevato tasso di disoccupazione che gli anni Novanta ci lasciano in eredità (sia in Italia che in larga parte dell’area dell’euro). A tale proposito è necessario essere consapevoli che con i tassi di crescita del PIL attuali e prevedibili difficilmente si riduce la disoccupazione. Occorre una forte crescita per sperare di contribuire in maniera consistente alla riduzione della disoccupazione.


Alcuni nutrono la convinzione che un rimedio efficace contro la disoccupazione potrebbe rinvenirsi in una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro (cfr. Jossa, 1995), oppure in una completa flessibilizzazione del mercato del lavoro. Certe convinzioni sembrano essere ispirate da un eccessivo ottimismo sulle concrete possibilità che riforme e flessibilizzazione del mercato del lavoro possono dare ad un sostanziale contributo alla riduzione della disoccupazione. Questo ottimismo genera perplessità che si fondano sulle seguenti riflessioni:

– in situazioni di stagnazione della domanda difficilmente la disoccupazione complessiva risulta sensibile a condizioni di maggiore flessibilità e trasparenza nel mercato del lavoro (anche se a livello aziendale tali misure possono risultare convenienti per un dato livello di occupazione);

– non si trascura la circostanza che il Sindacato sia stato finora un pilastro importante della politica, e che con quest’ultimo andrebbero, comunque, concordate le misure di flessibilizzazione del mercato del lavoro? Con quale consenso sociale potrebbero essere attuate misure di liberalizzazione che comunque verrebbero considerate dai lavoratori come un peggioramento delle loro condizioni?

Come ricorda Patinkin, il consenso sociale è indispensabile per programmi di risanamento, ma rimane da chiarire, nel caso italiano, in quale contesto istituzionale e di relazioni industriali esso sia conseguibile.


10 commenti:

  1. Le tre domande centrali che pone Vinci nella sua esposizione hanno trovato risposta. E nella stessa analisi dell'andamento del PIL in relazione a quello della spesa pubblica evidenziato nel mio post che hai gentilmente ospitato (e "introdotto" con eloquenti conferme).

    Oggi però ci troviamo di fronte a una prospettiva ancora più raggelante, che a sua volta è lo sviluppo alla ostinata mancata risposta a quelle 3 domande, che ormai paiono essere messe completamente da parte. Da ogni forza politica vecchia e nuova.
    Mentre le conseguenze aperte degli "spazi di rassegnazione" di massa, ormai consolidatisi, rispetto al disegno del profitto oligarchico mondiale sono sempre più evidenti
    http://orizzonte48.blogspot.com/2013/03/oltre-il-pud-1-la-cosa-20-la-casa-xyz.html?showComment=1363102160884#c2753953607067174600

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    1. Le insidie delle nuove forme di comunicazione sono molte ed è per questo motivo che secondo me dobbiamo continuare a spingere sul tasto della comunicazione diretta, razionale, logica, che rifugga le parole d'ordine e i martellamenti linguistici, che sono le prerogative di chi vuole attuare strategie di controllo e indirizzamento...bisogna continuare con i dati e le verità fattuali che ormai hanno aperto una vera breccia nella capacità di interpretazione e lettura della realtà!!! Ad ogni illusione strampalata costruita da loro, come può essere la decrescita, dobbiamo rispondere con una spiegazione logica, un dato, un fatto che ne evidenzi l'inconsistenza economica e politica...

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    2. Certo, ma questa contromisura vale, in un certo senso, per chi già ci "legge" o è culturalmente già un potenziale lettore.
      Cioè una minoranza che, nel calcolo del parametro "Stupidity" (è un "loro" indicatore non un mio personale epiteto), è già scontata come recessiva e superabile.
      Quello che muove i "loro" calcoli è il feedback della persuasione di milioni di persone. Contro poche migliaia di non "acquisibili". E conoscendo questi numeri e queste dinamiche, il rapporto cost/benefit rimane ampiamente vantaggioso.
      Anche perchè sostituendo all'idea della crescita della cultura-formazione realizzata con la spesa pubblica (che continua a essere avversata), quella della agevole "acquisizione" della verità sul web, possono continuare a legittimarsi come "apparenti" forze di rinnovamento positivo.
      E proseguire a diffondere l'idea del crowding-out: dallo Stato (inefficiente e corrotto) al nuovo feudalesimo decrescista ma felice...

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  2. Dai piero per generazione X perduta possiamo anche intendere la generazione di cui hanno perso il controllo, ora siamo come Neo su matrix :) siamo un'incognita fuori controllo

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    1. In effetti Daniele pare proprio che la variabile gli sia di nuovo sfuggita di mano...ora tocca a noi non farci incastrare un'altra volta in una monotona costante!!!

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  3. Caro Piero,

    Scusami per l'utilizzo di "Te" come cassa di risonanza ma leggendo l'articolo ed i relativi commenti mi sovviene una necessità che forse odiernamente e tempo permettendo non sono per altro versi riuscito ad esprimere.

    Così la espongo, come tratta da altro commento in altro loco rilasciato e per altro motivo esposto:

    Una moneta diversa, sono d'accordo, non risolve i problemi. Solo un salto di paradigma "sincero" nell'analisi degli stessi potrebbe farlo.
    Ciò non toglie che, in assenza (ingenua o colpevole) di tale analisi, si sia perseguito uno schema che definire "opportunista" è puro eufemismo.
    Tale schema ha presupposto, auspicato ed effettivamente realizzato, i propri obiettivi tramite la propria forza e capacità nel trasmettere "ignoranza" nel prossimo.
    Nel soffocare la capacità critica dei propri interlocutori.
    Nell'annichilire la volontà dei propri antagonisti, detrattori, competitori e contendenti.
    E se da un lato risulta pur vero che Bersani non sia assurto mai a primo ministro, il suo ruolo "dominante" (positivo o negativo non spetta a me giudicare certamente) lo ha assolto nei vari incarichi da ministro cui è stato nominato. Ultimo, ma non più o meno vitale degli altri, quello di Ministro dello Sviluppo Economico nel II Governo Prodi in cui, certamente, tentò una rivoluzione nell'ambito delle considerazioni "coorporative" delle varie "arti e mestieri" ma nulla apparve od espose con orgoglio (a mia stretta memoria naturalmente e sperando di esser smentito) rispetto a "rideterminazioni" di una concezione politica "emancipata" ed "indipendente" della comunità e del suo conseguente "Stato".
    Allo stesso modo Grillo si espone come alfiere di una novità.
    Ora, sulla sostanza di questa novità ho avuto personalmente di che controbattere.
    Ritengo, però, che il personificare il movimento con il suo presunto leader o con la secolarizzazione, ancorché presunta ed alquanto prematura, delle sue strutture faccia un enorme torto alla, sempre presunta naturalmente, capacità dei loro singoli esponenti.
    Noi esseri umani siamo spesso spinti alla messa in opera negligente della pratica della catalogazione. Quella pratica che invariabilmente giudica il prossimo per compartimenti stagni e non per la loro singolare ed individuale competenza, capacita ed analisi personalmente critica.
    Pertanto ed in conclusione, mi limito (anche si riconosco che il mio limite è sempre prolisso ancorché limitante nel mio personale giudizio) ad affermare, anzi, a dire che i "governi forti" sono rappresentati da persone che tentano, pur con le loro macchie, di perseguire un interesse sincero e quindi comune. Cosa certamente non rispecchiata dal precedente Governo di chiara origine "elitaria", come su quello che ancor prima lo ha preceduto di chiara origine "opportunistica".
    Vogliamo ora ed oggi sperare in un "governo" di origine se non chiara almeno di ispirazione "genuina".... nella medesima speranza che il genuino giaccia nelle persone e non in ciò che "difformemente", "diabolicamente" o "deviatamente" (per opportunismo pensiero e.o convenienza) rappresentano?
    Un saluto interrogativo,
    Elmoamf

    P.S.:
    Di nuovo un saluto di ben tornato,
    Elmoamf Massimo Paglia

    P.S. II: il mio tentativo di cassa di risonanza trova origine nell'encomiabile lavoro di divulgazione di Quarantotto e se qui l'ho espresso è solo perché attinente e spero, nel suo piccolo, enfatizzante di una ricerca di approfondimento del pensiero ovunque esso sia in grado di giacere ma non allo stesso tempo essere in grado di esporsi!

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  4. Generazione X, mors tua vita mea, la capacità dei politici di aver sfruttato una generazione per il loro tornaconto personale (voti contro pensioni-posti di lavoro - opere pubbliche , etc....)creando un fardello di debito gettato sulle spalle della generazione X e seguenti (qualcuno pagherà....poi). Uno scontro tra generazioni che vede noi perdenti (senza pensione, senza barriere all'insicurezza sociale et economica) e loro vincenti (politici di tutte le schiatte) che hanno creato questo bubbone e coloro che hanno approfittato (e approfittano) di ciò che i politici hanno loro dato.
    E' un duro risveglio da un lungo torpore, per tutta la nostra generazione, al quale dobbimao porre rimedio, anche trovando una solidarietà tra le generazioni (non possiamo essere noi gli X gli unici a pagare) Grillo molto probabilmente sarà solo colui che ha avuto il coraggio/opportunità di evidenziare e dire ciò che molti hanno sempre detto ma sono rimasti nel loro angolo.
    Paolo D.

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  5. Grazie Piero, hai esaustivamente spiegato come mi sento-ho vissuto e dato spunti d'approfondimento preziosi. Dario

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