lunedì 14 maggio 2012

MONETA, DEBITO E SPESA PUBBLICA: SOLUZIONI SEMPLICI PER PROBLEMI COMPLESSI


Dopo gli ultimi scossoni elettorali in Europa la dottrina mistica del rigore e dell’austerità filo-tedesca comincia a mostrare le prime crepe. In Francia, il nuovo presidente Hollande aveva detto di voler rimettere in discussione gran parte delle direttive del Fiscal Compact, in particolare quelle che prevedono un rientro programmato del debito pubblico cumulato entro la soglia del 60% del PIL e la disciplina del pareggio di bilancio come regola aurea (?) di comportamento da parte dei governi nazionali (in una crisi creata esclusivamente dall’eccesso di debito privato, non ha alcun senso continuare a penalizzare la finanza pubblica). Ma bisogna ancora capire fino a che punto i propositi di Hollande facevano parte di una precisa strategia propagandistica da utilizzare solo in campagna elettorale e dove cominciano invece le reali intenzioni di sovvertire la severa impostazione rigorista e deterministica della tecnocrazia europea, che asseconda il ciclo recessivo in corso e lascia poco spazio alla discrezionalità delle manovre anticicliche di politica economica dei singoli stati e dell’unione nel suo complesso.

In Grecia le elezioni hanno mostrato un’evidente insofferenza nei confronti delle stesse regole di austerità da applicare sia al settore pubblico che privato in cambio dei pacchetti di aiuti di salvataggio. Il voto in Germania ha bocciato lo stesso partito della Merkel. In Italia dopo le elezioni amministrative che hanno decretato un successo clamoroso della nuova compagine politica del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, sia a destra che a sinistra sono cominciati i mal di pancia verso il governo dei banchieri guidato dal tecnocrate europeista e neoliberista Mario Monti, dato che l’eccessivo appiattimento rispetto alla linea del rigore inutile caldeggiata dai tecnici del nulla ha causato una conseguente perdita di consenso da parte dei partiti tradizionali. Inoltre la gente, nonché qualche sparuto drappello di giornalisti di regime illuminati sulla via di Damasco, ha cominciato a capire che l’austerità è matematicamente, conti alla mano, una medicina che in tempo di recessione rischia di uccidere il malato più rapidamente rispetto al normale decorso della malattia. Il miracolo sta avvenendo insomma.



I ragionamenti che pubblicamente i redivivi giornalisti e i presunti esperti di economia snocciolano alla platea silenziosa degli ascoltatori sono quasi sempre gli stessi: l’austerità, l’aumento delle tasse riduce la liquidità in circolazione, diminuisce la domanda di beni e servizi, aumenta la propensione al risparmio, le imprese vendono di meno e sono costrette a chiudere e a licenziare, si innalza la disoccupazione e si crea un’ulteriore contrazione dei consumi che peggiora il quadro generale. Se si percorre la strada opposta del taglio della spesa pubblica si arriva allo stesso disastro, perché una riduzione della spesa pubblica comporta ancora una volta una contrazione della liquidità immessa dal governo nell’economia e una maggiore diminuzione percentuale del PIL, che in proporzione tende a fare aumentare ancora di più il famigerato rapporto debito pubblico/PIL, che ormai ha sforato abbondantemente la soglia del 120%.

La soluzione più ovvia per invertire la rotta sarebbe una riduzione delle tasse accompagnata da un contemporaneo aumento o riallocazione della spesa pubblica, trasferendo parte dei fondi della spesa corrente destinati ai consumi improduttivi verso la spesa in conto capitale per investimenti pluriennali e i sussidi alle imprese, che in qualche modo possono favorire un rilancio dell’economia. Ma arrivati a questo punto del dibattito, rispettando un canovaccio ormai consolidato, gli ospiti cominciano a sgranare regolarmente gli occhi e si solleva quasi sempre un mormorio che sfocia spesso in aperta contestazione: “Sarebbe una follia! Ma voi avete presente quanto paghiamo di interessi sul debito pubblico? Aumentando la spesa, il debito pubblico aumenterebbe e verremmo sommersi dal pagamento degli interessi, che ormai hanno raggiunto quasi la quota di 100 miliardi all’anno!”.

Da notare che coloro che avanzano questi furenti ammonimenti contro l’eresia della spesa pubblica sono spesso i rappresentanti della cosiddetta sinistra progressista, PD e dintorni, che tradizionalmente dovrebbero avere una certa predisposizione per favorire un intervento più deciso dello stato nell’economia: tuttavia siccome viviamo ormai da tempo in un mondo palesemente all’incontrario e mistificatorio, dove non si capisce mai quale sia il confine fra la realtà e la farsa, non fa più tanto clamore sentire queste parole in bocca a quelli che dovrebbero essere i maggiori difensori del popolo e delle fasce più deboli della popolazione. Dal momento in cui il paladino dei salotti della sinistra radical chic Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica e amico intimo dei banchieri Carli e Ciampi, ha sdoganato in Italia le meraviglie del libero mercato e il neoliberismo sfrenato come pensiero unico economico e politico da seguire alla lettera (nel senso proprio di lettera di istruzioni dei banchieri della BCE Trichet e Draghi ai politici di un presunto stato democratico), appare più che normale che la “sinistra” si schieri contro lo stato, i lavoratori, i diritti civili dei cittadini e in favore dei grandi detentori di capitale, imprenditori, banchieri, magnati della finanza internazionale. E’ il segno dei tempi.

Ad ogni modo a questo punto il dibattito si arresta davanti un vicolo cieco, perché in sala non si trova mai nessuno disposto a contraddire i fustigatori dello stato e della spesa pubblica con dei semplici ragionamenti, lasciando purtroppo immutato quel senso di sfiducia, frustrazione e fatalità che ormai da qualche decennio ha contagiato il nostro paese. Le cose vanno così e devono andare così, perché ciò è scritto nelle tavole della legge della nuova religione che governa i popoli: l’economia, il debito, lo spread, i mercati e tutto il resto. Ma vediamo con alcuni passaggi logici come si potrebbe rispondere ai nuovi comandamenti divini dei conservatori e reazionari neoliberisti sia di destra che di sinistra (differenza ormai soltanto di facciata che viene utilizzata dai conduttori  per fini puramente scenografici), che come vere e proprie orde barbariche invadono i talk show televisivi.

La spesa pubblica non deve essere misurata in valore assoluto, ma tramite gli effetti concreti che produce nell’economia: come tutti gli strumenti di carattere finanziario, i risultati ottenuti dipendono dal corretto utilizzo dello strumento e non dalla natura dello strumento in se stesso. In particolare, possiamo misurare gli effetti di una determinata scelta di spesa pubblica attraverso l’andamento del PIL, che misura il reddito nazionale. A prescindere dall’iniziale copertura finanziaria o meno con un equivalente importo di tasse, se la spesa effettuata dallo stato è efficace produce un maggiore effetto moltiplicativo del PIL, dei redditi e delle transazioni finanziarie; di conseguenza  la spesa viene già ripagata da questo stimolo positivo sui mercati perché lo stato potrà raccogliere una maggiore quantità di entrate fiscali relative al maggiore reddito nazionale, senza causare alcun aumento del debito pubblico. Il PIL, che sta al denominatore, aumenta più velocemente della spesa o del debito che stanno al numeratore e complessivamente la situazione della nazione migliora. Se invece la spesa si limita soltanto ad interventi inefficaci, improduttivi e sprechi, allora non facciamo altro che accelerare i processi recessivi o rischiare di produrre fenomeni inflattivi, nel caso in cui i livelli di reddito, di domanda e di occupazione siano già vicini alla saturazione.

Come viene bene evidenziato dal grafico sotto pubblicato sull’ottimo blog dell’economista Gustavo Piga, l’andamento della spesa pubblica nel tempo dipende molto dal corrispondente andamento del PIL. Nella situazione attuale (linea nera) il rapporto spesa pubblica/PIL si aggira intorno al 51%, che obiettivamente è un livello molto alto. Ma questa cifra esorbitante non è dovuta tanto all’aumento in valore assoluto della spesa pubblica, quanto piuttosto alla caduta disastrosa del PIL dal 2009 ad oggi. In uno scenario di perfetta stagnazione (linea azzurra: nessuna crescita o decrescita del PIL=0%), le cose comincerebbero spontaneamente a migliorare verso livelli meno preoccupanti. Prevedendo invece una modesta crescita del PIL dell’1% (linea rosa), la situazione sarebbe stata ancora migliore, senza fare ricorso a nessun taglio o aumento della pressione fiscale.



Fra l’altro, come abbiamo già detto, dobbiamo subito distinguere fra due tipi principali di spesa pubblica: spesa corrente e spesa in conto capitale. La prima serve a finanziare i consumi, gli stipendi, le pensioni, i sussidi di disoccupazione e la seconda invece viene utilizzata per gli investimenti a lunga scadenza e il sostegno alle imprese, tramite stimoli e agevolazioni fiscali o finanziamenti diretti. Verificando il rapporto della Corte dei Conti del 23 aprile scorso possiamo notare che in questi ultimi due anni in Italia abbiamo assistito ad un aumento contenuto della spesa corrente e ad un andamento pressoché costante della spesa in conto capitale. L’unica cosa che è aumentata davvero è il peso degli interessi pagati ai soliti banchieri per chiedere un anticipo dei soldi da spendere, dato che al netto degli interessi l’Italia ha sempre avuto un avanzo primario (entrate fiscali maggiori delle spese).

Inoltre balza subito all’occhio la differenza abissale fra il saldo della spesa corrente (circa 672 miliardi nel 2011) e il saldo della spesa in conto capitale (circa 48 miliardi sempre nel 2011), che evidenzia come in Italia ormai non si faccia più una seria programmazione degli investimenti di medio e lungo periodo, ma si vive soltanto alla giornata. Cosa saggia sarebbe cercare di spostare una quota della spesa corrente destinata ai consumi inutili e sperperata negli sprechi per convogliarla verso gli investimenti produttivi, la ricerca e i sussidi alle imprese, che fanno girare l’economia in maniera virtuosa e possono creare le premesse per un aumento del reddito nazionale. Mentre ad occhio e croce, sembra che la tendenza del ragioniere Monti sia quella di utilizzare i finanziamenti europei per operazioni di marketing sociale (è molto più facile dare una social card ad un povero che inserirlo in un qualsiasi circuito lavorativo e consentirgli di uscire dallo stato di indigenza) e di tagliare indistintamente tutte le fonti di spesa adottando la spending review per risarcire i prestiti dei suoi sodali della finanza e bruciare definitivamente risorse utili all’intera collettività.

E veniamo qui al punto spinoso di tutta la faccenda. Ma perché lo stato italiano deve indebitarsi per spendere dei soldi che in teoria può benissimo crearsi da solo? Quale specifico diritto di proprietà hanno le banche sui soldi che vengono dati in prestito allo stato? Ovviamente nessuno e per spiegarlo ricorriamo ad una breve storiella che viene spesso raccontata per spiegare il funzionamento dell’attuale sistema monetario. Un giorno un professore di economia si presenta ad una conferenza per illustrare alcune ricerche sul debito, la moneta e il sistema finanziario moderno. Il professore mostra tabelle, grafici, numeri che evidenziano come il debito pubblico sia una grandezza sempre in continuo aumento a causa del regime di interessi composti applicati sui prestiti e dell’impossibilità di garantire una crescita economica che abbia lo stesso andamento esponenziale. Per tutto il tempo della conferenza, passeggiando avanti e indietro per il palco, il professore indossa un guanto bianco alla mano destra, che desta l’attenzione del pubblico, perché ogni tanto, durante i suoi discorsi, il professore si ferma per fissare la mano coperta dal guanto bianco oppure la agita per mostrarla al pubblico.

Finito il convegno, dal fondo della sala una persona si alza per fare una domanda: “Professore mi scusi ma perché indossa quel guanto bianco?” Il professore sorride e sfilandosi il guanto e mostrando la mano al pubblico risponde: “Ah, dimenticavo. Di tutto quel debito di cui abbiamo parlato, questo è il nostro principale creditore: una mano”. Una mano. Oggi come oggi infatti ciò che fa davvero la differenza fra il creditore e il debitore è la mano di colui che pigia i tasti di un computer. Se la mano appartiene ad un funzionario di una banca centrale o di una banca privata, la cifra che appare sul computer diventa automaticamente un credito, se invece questa mano appartiene ad un funzionario dello stato o ad un normale cittadino, quella stessa cifra è un debito. Questo modo di veicolare e organizzare i flussi finanziari è una scelta politica e non economica, perché non esiste alcun vero vantaggio o beneficio generale a gestire i processi monetari in tale maniera (a parte i profitti di quella minoranza di detentori di ricchezza che specula sul fatto che il beneficiario sia privato e il pagatore sia sempre pubblico).

Se verifichiamo attentamente la situazione attuale dell’Italia all’interno dell’eurozona possiamo subito rilevare il seguente schema che si ripete all’infinito: il funzionario della BCE, banca centrale privata, autonoma e assolutamente indipendente, crea soldi dal nulla pigiando i tasti di un computer e trasferisce questa cifra in prestito al funzionario della banca privata, che a sua volta invia la cifra sotto forma di prestito al funzionario del ministero delle finanze, che scrive sempre la stessa cifra fra le passività e i debiti dello stato, che dovranno essere pagati dai cittadini tramite la riscossione delle tasse. E’ soltanto una “questione di mani” come cantava Zucchero qualche tempo fa, perché dal 1971 in poi, con l’inizio del regime fiat money e la fine del regime di convertibilità dei soldi in oro, non c’è più alcun valore di scambio o ricchezza specifica che giustifica la posizione dominante del creditore che ha la possibilità di creare denaro dal nulla rispetto al debitore che è costretto ad accettare forzosamente quel denaro come unica tipologia di moneta a corso legale.

Il creditore è soltanto colui a cui è stata arbitrariamente concessa, in modo subdolo e truffaldino, questa capacità di creare soldi dal nulla, mentre il debitore è la massa dei poveri ignari cittadini e lavoratori, a cui i funzionari di stato collusi, i professori asserviti e i giornalisti compiacenti fanno ancora credere di essere indebitati. In realtà i cittadini non sono indebitati con niente e con nessuno, ma si tratta esclusivamente di una scellerata illusione ottica, una stregoneria frutto di una precisa strategia di sopraffazione tramata da tempo da una striminzita casta di oligarchi, plutocrati e banchieri, a cui tutti i partiti politici nazionali hanno sempre fornito insindacabile legittimazione parlamentare. Nelle segrete stanze è stato deciso che deve essere così, perché se il popolo dovesse un giorno capire e riappropriarsi del potere di creare soldi dal nulla, ciò che viene indicato spesso come sovranità monetaria ma che in realtà ha un significato molto più ampio, la classe degli oligarchi perderebbe il principale strumento su cui si basa tutta la violenta campagna di repressione, terrore e schiavizzazione delle masse.

Una volta riconquistato dai cittadini, tramite lo stato, questo più che legittimo diritto di emissione del denaro, tutti i discorsi sulla spesa e il debito pubblico potrebbero essere semplificati e ridotti alla loro reale essenza e utilità: il debito pubblico come parola e categoria dello spirito verrebbe definitivamente cancellato e la spesa pubblica diventerebbe un semplice strumento finanziario da utilizzare al pari di altri e in linea con i principali andamenti dell’economia (occupazione, inflazione, sviluppo sostenibile). Se questi metodi di monitoraggio e analisi dei processi economici funzionano bene a livello privato non si capisce perché passando in mano pubblica dovrebbero improvvisamente andare fuori controllo: in fondo si tratterebbe delle stesse competenze, delle stesse persone, degli stessi funzionari, a cui viene cambiato soltanto il datore di lavoro (a meno che qualcuno non dimostri tramite seri e affidabili studi scientifici che un impiegato privato che passa a lavorare alle dipendenze dell’amministrazione pubblica per svolgere le stesse mansioni diventa automaticamente più stupido, incapace e svogliato).  

Fra l’altro i cittadini hanno il diritto e dovere sacrosanto di rovesciare il tavolo e di riappropriarsi della propria moneta, togliendola dalle grinfie dei banchieri privati, per un semplice motivo: sono gli unici che danno davvero valore ai soldi creati dal nulla in regime fiat money perché fin dalla nascita rispettano diligentemente il corso legale della moneta, che come sappiamo obbliga ogni cittadino ad accettare questi soldi come forma di pagamento dello stato nei suoi confronti e a pagare le tasse allo stato utilizzando quegli stessi soldi. Senza questa doppia prova del fuoco, che passa sempre attraverso la scelta volontaria dei cittadini sovrani di uno stato democratico, nessuna moneta nazionale potrebbe avere sufficiente domanda e diffusione e si tornerebbe al regime feudale, che assegnava il potere di emissione della moneta ai signorotti e principi locali.

Dopo aver ridato finalmente significato e sostanza ad una parola oggi più che mai vuota e inappropriata come democrazia, riconsegnando il diritto di emissione dal nulla del denaro ai legittimi proprietari che sono appunto i cittadini, il problema della spesa pubblica potrebbe essere risolto seguendo alcuni semplici passi ed evitando soprattutto di creare di nuovo equivoci, fraintendimenti e confusione fra la gente:

  1)  La banca centrale pubblica decide periodicamente, a cadenza preferibilmente mensile, la quantità di nuova moneta da accreditare sul conto dello stato, basando la sua scelta sull’andamento delle principali grandezze macroeconomiche monitorate (disoccupazione, inflazione, PIL) e senza ricorrere all’emissione di titoli di stato o alla creazione di alcun debito: un debito che sia tale si forma quando qualcuno non ha attualmente le risorse necessarie per fare qualcosa (debito di ossigeno, debito scolastico, debito finanziario etc), ma nel caso specifico, a meno di catastrofici black out elettrici che impediscono il funzionamento dei computer, lo stato tramite la sua banca centrale non può essere mai privo della capacità di creare soldi dal nulla da spendere nell’economia, rendendo efficace le sue manovre di politica fiscale.


  2) Sempre in ambito di politica fiscale, la disciplina del pareggio di bilancio potrebbe essere mantenuta, con una certa flessibilità e tenendo conto del ciclo economico (espansione o recessione), per garantire stabilità finanziaria ed equilibrio fra la spesa corrente e le entrate fiscali, mentre dovrebbero essere gestite fuori bilancio tutte le spese in conto capitale che prevedono nuovi investimenti a medio e lungo termine, soprattutto nel campo della ricerca, dell’innovazione, dello sviluppo sostenibile, e la creazione di una maggiore offerta di beni e servizi, che con un proporzionale e progressivo aumento dell’occupazione e della domanda interna, avrebbero scarso effetto sull’inflazione.


  3) La banca centrale pubblica può continuare ad emettere per conto suo titoli di stato denominati in valuta nazionale, privi di rischio e sempre rimborsabili da vendere nel settore privato nei casi in cui diventa necessario drenare liquidità dai mercati finanziari e da riacquistare quando invece serve immettere nuova liquidità nell’economia. Questa attività rappresenta una semplice operazione di politica monetaria e di redistribuzione di reddito nel settore privato (l’interesse sui titoli) che non dovrebbe più rientrare nel bilancio dello stato, perché ancora una volta non risulta un debito della banca centrale nei confronti del settore privato, ma solamente uno scambio di titoli per liquidità e viceversa.


Game over. Gioco finito. La farsa e la commedia che attualmente viene recitata a soggetto da tutti i manovratori dell’opinione pubblica (politici, giornalisti, intellettuali di vario genere) avrebbe finalmente la sua degna conclusione e si calerebbe il sipario su uno dei periodi più oscuri e regressivi dell’intera civiltà umana: la fase dell’homo debitus che è l’ultimo stadio di involuzione dell’homo oeconomicus, dopo la parentesi fortunata che dall’homo erectus aveva portato all’homo sapiens. Per terminare in bellezza questa breve storia di riscatto dell’uomo sui numeri, si potrebbe anche eliminare dalla scena quell’altra scempiaggine del regime della riserva frazionaria che consente alle banche private di creare soldi dal nulla ogni volta che aprono un prestito nei confronti di un cliente, inserendo un ultimo passaggio:


  4) I clienti delle banche dovrebbero comunicare in anticipo se intendono solamente depositare i propri soldi oppure utilizzare una parte dei risparmi per consentire alle banche di investirli come impieghi e prestiti. In questo modo le banche tornerebbero al loro ruolo originario di semplici intermediari del credito, in un regime di riserva frazionaria del 100%, e nessuno, a parte la banca centrale dello stato, avrebbe la possibilità di creare nuova moneta dal nulla, favorendo l’insorgenza di eventuali fenomeni inflazionistici o bolle speculative.


Tutto ciò che va oltre questi quattro pilastri fondamentali di una futura, provvidenziale riforma monetaria può essere utile come contorno ma non cambia minimamente la sostanza della realtà che stiamo vivendo e che dobbiamo affrontare. Si tratta in pratica di mettere a punto semplici norme di buon senso, perché i problemi attuali sono complessi non per la loro reale natura ma perché sono stati volutamente complicati e ingarbugliati dalle solite élite dominanti per tenere lontano dalla definitiva comprensione e dalla ricerca delle soluzioni il maggior numero di persone possibile. 


Una volta eliminato il debito pubblico quale fattore su cui fare ruotare tutte le decisioni di politica economica e fiscale, le due migliori cartine di tornasole per capire quanto efficace sia l’azione di un governo e di un’economia nel suo complesso diventano il valore dell’inflazione interna e il saldo della bilancia dei pagamenti con l’estero: da questi dati, da tenere continuamente sotto controllo, e non da altri bisognerebbe sempre partire per misurare la capacità e il merito di un’intera classe dirigente, perché la forza di una moneta, il mantenimento del suo potere d’acquisto e la stabilità di cambio con le monete estere (equilibrio dinamico fra svalutazioni e rivalutazioni successive, ridotto tasso di indebitamento/accreditamento con l’estero) rappresentano univocamente la vera forza di una nazione e di un popolo. Ma se l’inflazione e il debito estero sono i principali indicatori della salute interna ed esterna di una nazione, l’obiettivo principale di una seria politica fiscale dovrebbe essere quello di riportare costantemente l’economia al servizio dell’uomo: il fine ultimo di uno stato democratico o che ambisce a diventare tale dovrebbe essere innanzitutto la piena occupazione e la garanzia di benessere, tutela e assistenza estesa a tutti i cittadini. Sarà utopistico come proposito, ma in mancanza di questa utopia la democrazia non ha più senso di esistere e dovremo bene o male accontentarci di una forma più o meno blanda di dittatura (finanziaria, monetaria, mercantilista e in casi estremi anche militare).


Fino a quando però la propaganda di regime continuerà a martellare nella testa della gente paure inesistenti come quelle del debito pubblico e dell’inflazione, possiamo purtroppo fare ben poco e dobbiamo sorbirci lezioni di economia da gente davvero improbabile. Come quest’ultimo blogger, tale Fabio Scacciavillani di professione consulente finanziario di un fondo di investimento dell’Oman, assoldato dal giornale indipendente (?) Il Fatto Quotidiano in qualità di economista (siamo sempre lì: dire che un agente finanziario è un economista è come dire che un giocatore d’azzardo e biscazziere è un sociologo), per farfugliare dopo una spiegazione quanto mai inverosimile sul significato della moneta (confonde le variabili di stock, il patrimonio e le ricchezze immobiliari, con le variabili di flusso, le transazioni finanziarie) delle scemenze incredibili come queste:


“Per eliminare questa tentazione (del politico che stampa moneta…) la decisione su quanta moneta mettere in circolazione è affidata alla Banca centrale, un’istituzione pubblica, non sottoposta agli ordini diretti del governo. Non è un’anomalia. Per esempio onde evitare che un ministro nottetempo trasferisca la proprietà di terreni a sodali e parenti, il catasto è indipendente dal potere politico. Analogamente le maggiori banche centrali dopo il 1971 sono state rese indipendenti dai politici nell’implementazione della politica monetaria.

Spero che questa sintetica esposizione sia utile per capire meglio cosa si cela dietro le diatribe sulla monetizzazione ad oltranza del debito pubblico, il ruolo della Bce, i presunti benefici che deriverebbero dallo stampare moneta all’infinito. Una volta distrutto un sistema informativo complesso è molto oneroso e penoso ristabilirlo, come hanno scoperto in Zimbabwe. In buona sostanza una moneta svalutata è un sistema informativo scadente di cui gioiscono gli ebeti perché crea l’effimera impressione di riempire i portafogli, ma a lungo andare non riempie la pancia.”


Forse il signor Scacciavillani non sa che tutte le normali banche centrali del mondo di stati sovrani (Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Svezia…tutti tranne l’eurozona insomma) sono già dipendenti dal governo nazionale, che può chiedere alla banca centrale di monetizzare su richiesta tutto il debito e il disavanzo pubblico che vuole. Eppure, nonostante ciò, negli ultimi anni non abbiamo mai assistito in questi paesi a fenomeni iperinflazionistici come quelli dello Zimbabwe e della Repubblica di Weimar: chissà come mai? Forse perché le nazioni più moderne e sviluppate possono utilizzare metodi di monetizzazione, informazione e controllo più sofisticati di quello di uno stato africano e o di una nazione dei primi del novecento indebitata fino al collo? Forse perché l’inflazione, ovvero l’aumento dei prezzi al consumo, non dipende soltanto dalla quantità di soldi spesi dallo stato, ma anche dall’offerta e dalla domanda complessiva di beni e servizi? Forse perché la quantità di moneta circolante viene determinata solo in minima parte dalla spesa pubblica dello stato, essendo soprattutto influenzata dall’attività creditizia delle banche commerciali?


Fra l’altro il consulente finanziario, distratto forse dagli spread sui titoli sui quali oggi costruisce le sue fortune, confonde il concetto di “decisione della quantità” con quello di “proprietà” della moneta: non si capisce infatti per quale motivo l’istituzione privata o pubblica che sia, alla quale è stato assegnato il compito di decidere quanta moneta mettere in circolazione, debba per questo motivo arrogarsi il diritto di proprietà di quella stessa moneta, dandola in prestito agli stati. Considerando l’elevato livello di aleatorietà ed approssimazione incluso nella scelta della perfetta quantità di moneta da creare (ricordiamo che l’economia non è una scienza esatta, quindi qualsiasi tentativo di stabilire un limite quantitativo ad un valore economico o finanziario risulta spesso molto più simile ad un azzardo, una sommessa, o al vaticinio di un oracolo), è come se la fattucchiera che ha previsto che noi domani vinceremo alla lotteria un milione di euro pretendesse di essere pagata con un milione di euro più gli interessi: è chiaro invece che noi corrisponderemo alla fattucchiera il compenso dovuto per la sua prestazione, così come al funzionario della banca centrale pagheremo lo stipendio mensile, a prescindere che abbia azzeccato o meno la sua previsione sulla quantità corretta di moneta da creare.

    
In un contesto mondiale in cui la banca centrale dipende strettamente dal governo (anche se permane l’abitudine puramente convenzionale e simbolica di indicare i loro rapporti finanziari sotto forma di debiti e crediti), la vera anomalia quindi è proprio la BCE, che arroccandosi dietro questa cortina di fumo dell’autonomia e dell’indipendenza, impedisce ai governi di espletare le normali funzioni di amministrazione della cosa pubblica, senza doversi ogni volta indebitare con banche, speculatori finanziari o fondi di investimento dell’Oman. D’altronde cosa volevamo aspettarci da un consulente mercenario al soldo di una società finanziaria straniera, che magari proprio in questi mesi si sta arricchendo nella compravendita speculativa di titoli di stato italiani volatili e ad alto rendimento, senza provare mai un solo scrupolo di coscienza, senza riflettere minimamente sulla sofferenza ingiusta e i patimenti evitabili subiti dai suoi stessi connazionali.


Volevamo forse aspettarci la verità? Il buon senso? L’obiettività? Il signor Scacciavillani ha trovato la manna caduta dal cielo e sta tirando acqua al suo mulino e soprattutto ha trovato qualcuno di una testata giornalistica a diffusione nazionale disposto a dargli visibilità e risonanza, il quale infischiandosene di fornire al pubblico un buon servizio di informazione (privo innanzitutto di quel conflitto di interessi che tanto osteggiano in altri ambiti e settori) finisce quasi sempre per assecondare stranamente quelli che stanno dalla parte forte del creditore e mai sul versante debole del debitore. Niente di nuovo sotto il sole insomma.   



1 commento:

  1. Il sig. Scacciavillani di recente si è messo a fare anche del terrorismo psicologico (http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/06/24/altro-che-euro-arrivano-le-bungalire/273275/), tanto per non smentirsi.

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