L’approvazione in
prima battuta dell’accordo intergovernativo Fiscal Compact da parte di 25 stati dell’Unione Europea (Gran
Bretagna e Repubblica Ceca sono scappati di corsa, mentre la Svezia ha mostrato
più di una riserva in attesa di un confronto diretto con il suo parlamento) ha in
se qualcosa di inquietante e preoccupante che dovrebbe fare riflettere chi ha
ancora a cuore la tenuta democratica del governo della propria nazione.
Pur di non
contraddire l’aspirazione tutta tedesca all’austerità e al rigore di
bilancio, ben 25 nazioni che un tempo erano sovrane si sono piegate ai
diktat della Germania e hanno
accettato delle regole di rigidità
economica che qualunque contabile, con un po’ di sale in zucca, avrebbe
giudicato folli e irresponsabili: persino un fanatico neoliberista, amante
della dottrina del libero scambio e
convinto sostenitore dell’inerzia dello Stato negli affari, dovrebbe tremare di
fronte a tanta ottusità e cecità nella gestione dei flussi economici (se
infatti i neoliberisti sono così tenaci nel perseguire l’dea di ridurre gli stati
e semplici società per azioni,
perché diversamente dalle altre aziende obbligano invece i governi nazionali al
pareggio di bilancio e non
consentono alla pubblica amministrazione di andare anche in perdita per un
certo periodo secondo le normali leggi del libero mercato?).
Risparmiandovi la
lettura del testo integrale e definitivo dell’accordo intergovernativo Fiscal Compact (che comunque vi consiglio di
leggere perché è un esempio di sopraffina visione kafkiana della lucida follia
della burocrazia tecnocratica europea e chi ha letto “Il Castello” dello
scrittore di Praga sa a cosa mi riferisco), volevo sottolineare nuovamente
alcune criticità contenute nel documento, che in maniera ancora approssimativa
e parziale erano state già state evidenziate in un precedente articolo.
Dopo aver letto la
sintetica analisi punto per punto, capirete il motivo per cui si ritiene
opportuno che gli italiani possano giudicare tramite un referendum se appoggiare o bocciare l’attuale linea tedesca di
conduzione dell’Unione Europea, anche perché è giunto il momento che il popolo
italiano possa di nuovo esprimersi sul progetto ormai delirante e fuori
controllo della coatta unificazione europea: ricordiamo che l’ultima e unica
volta in cui gli italiani hanno dato un parere tramite referendum sul disegno a
quel tempo ancora radioso e promettente (e aggiungo io anche vago e descritto
in maniera volutamente superficiale dalla propaganda di regime) dell’Europa
unita è stato nel lontano 11 maggio 1989
(mentre il Trattato di Maastricht del 1992 e il Trattato di Lisbona del 2007
sono stati approvati tramite ratifica parlamentare) e chi ha buona memoria
ricorderà che il quesito referendario riportava le seguenti parole:
"Ritenete che si debba trasformare la
Comunità Europea in una effettiva Unione dotata di Governo responsabile di
fronte al Parlamento affidando allo stesso Parlamento il mandato di redigere un
progetto di Costituzione da sottoporre a ratifica dagli organi competenti degli
Stati membri?"
Sospinti dalle folate
di ottimismo quasi unanime che provenivano sia dalle fazioni politiche di
centro, che dalla sinistra e un po’ meno dalla destra nazionalista, gli italiani
approvarono a larga maggioranza (66,83% di affluenza alle urne, 88% di voti
favorevoli e 12% di contrari) la prospettiva non ancora concreta di fondare
l’Unione Europea, ma da allora c’è stato il silenzio più assoluto.
Siccome dal 1989 ad
oggi le cose sono decisamente cambiate e dai cieli cristallini della
solidarietà universale si è passati ai nuvoloni neri della recessione economica, forse sarebbe opportuno in una nazione
democratica e a sovranità popolare come l’Italia (?) rifare la conta dei suoi
cittadini e capire quanti sono quelli che venuti a conoscenza delle modalità
con cui opera e agisce questo fantomatico
Governo europeo (per intenderci la Commissione
e il Consiglio, che sono organi
istituzionali non eletti o legittimati da nessun Parlamento o rappresentanza
popolare, ma i cui membri vengono nominati dall’alto tramite accordi
governativi sottobanco) sono ancora disposti a farsi guidare da questo manipolo
di fanatici tecnocrati di ambigua provenienza e scarsa affidabilità (vi siete
mai chiesti da dove vengono Barroso e Van Rompuy? E il motivo per cui, a
differenza di tutti gli altri leader mondiali, non partecipano mai a comizi o
interventi pubblici di fronte alla cittadinanza? Ma si muovono solo all’interno
dei palazzi di Bruxelles, Francoforte e Strasburgo? Cavoli, in teoria
dovrebbero essere i nostri leader, e qualche volta sarebbe bello sentirli
parlare in una piazza o in un auditorium, anche solo per farci prendere in giro,
come fa il presidente Obama negli Stati Uniti).
Fra l’altro è utile
ricordare che le ultime volte in cui i cittadini di Francia, Olanda e Irlanda hanno avuto il privilegio di
poter votare un documento o una decisione fuoriuscita dai palazzi di vetro
dell’Unione Europea, hanno detto decisamente “no!”. Ma in quel caso si trattava di approvare la Costituzione Europea e con un rapido
stratagemma i tecnocrati aggirarono l’ostacolo cambiando il nome del documento
da carta costituzionale in Trattato di
Lisbona e riuscendo così a strappare la ratifica per via parlamentare.
Perché come spesso ha denunciato ironicamente l’europarlamentare inglese Nigel Farage, accesso contestatore della
dittatura tecnocratica di Bruxelles, in Europa ci sono due soli modi per
esprimere il proprio voto: “sì e sì,
grazie”. Oltre a queste due possibilità di scelta, la tecnocrazia non
prevede altre eventuali alternative che in qualche modo ostacolino i suoi piani
divinatori e onirici di puro fanatismo religioso.
Ma adesso, passiamo
ad analizzare punto per punto i più controversi
passaggi dell’accordo intergovernativo Fiscal Compact, che ogni nazione può
decidere singolarmente di ratificare o tramite approvazione parlamentare oppure
appunto attraverso un referendum popolare (sarebbe il caso mobilitarsi al più
presto, anche se obiettivamente gli argomenti in questione sono di scarso
impatto emotivo e ostici da comprendere con immediatezza).
1) Rapporto debito/PIL non superiore al 60% (articolo 4)
Come ha fatto
giustamente notare sul sito la voce.info Giuseppe Pisauro, la regola che impone
di ridurre l’eccedenza di debito rispetto al 60% di 1/20 all’anno non deve
essere vista in maniera statica (il classico taglio del 3% all’anno per venti
anni che si traduce in 45 miliardi di euro all’anno per venti anni), ma in
un’ottica dinamica. Partendo dalla
situazione italiana di rapporto debito/PIL del 120% e considerando il valore
del PIL costante nel tempo, ciò significa che il primo anno (2013) si dovrà
tagliare il debito del 3%, ma il secondo anno il rapporto sarà del 117% e
quindi essendo l’eccedenza questa volta il 57%, il taglio annuale di 1/20 sarà
del 2,85%. Il terzo anno avremo un rapporto debito/PIL del 114,15% e il taglio
obbligatorio sarà del 2,7% e così via per gli anni successivi. In questo modo,
con tagli marginali sempre decrescenti
nel tempo, il periodo di rientro del debito sotto la soglia del 60% potrebbe
diventare molto più lungo degli iniziali 20 anni.
In una prospettiva
più realistica, prendendo per buone le stime ufficiali che accreditano l’Italia
di un aumento del PIL reale (ovvero calcolando i prezzi di scambio al netto
dell’inflazione) dell’1% nel 2014 e del conseguente PIL nominale del 2,7%
(l’Europa tiene per buono questo secondo dato, consigliando velatamente di mantenere
un certo grado di inflazione per
gonfiare un po’ di più il tasso di crescita economica), l’andamento del
rapporto debito/PIL per l’Italia sarebbe quello prospettato nel grafico sotto:
ovvero fra venti anni, nel 2033, ci troveremmo ancora con un rapporto
intorno all’80%, ben superiore del
fatidico 60%.
Questa regola quindi, oltre ad essere inefficace nella pratica, è stupida nelle sue finalità, perché va bene prospettare una certa soglia di indebitamento oltre la quale si consiglia di applicare azioni correttive, ma deve essere lo stato e le sue istituzioni economiche a decidere l’importo complessivo delle manovre da applicare, in base alle effettive condizioni del mercato, al valore dell’inflazione percepita, ai livelli occupazionali e non tramite una regoletta matematica che non tiene conto di tutti questi fattori (per intenderci, in un dato anno per lo stato potrebbe essere più conveniente indebitarsi più del consentito per rilanciare l’economia e avere così conseguenze meno restrittive e stringenti negli anni successivi).
Se a questo
aggiungiamo tutte le considerazioni già fatte in un precedente articolo sull’eccessiva
mistificazione del significato di debito pubblico (che ricordiamo in un regime
di fiat money, moneta creata dal
nulla, non significa più niente e anzi misura la ricchezza netta fornita dallo
stato ai suoi cittadini, vedi teoria MMT,
Modern Money Theory), la regoletta
di Bruxelles risulta doppiamente stupida.
2) Pareggio di bilancio (articolo 3)
I tecnocrati europei
(Monti compreso) definiscono questa norma del pareggio di bilancio una golden rule (regola d’oro), ma come vedremo di dorato ha ben poco. Mantenendo
per buone le condizioni di taglio del debito esposte sopra, l'obbligo imposto per legge comunitaria significa che l’Italia deve necessariamente produrre ogni anno un avanzo primario, cioè un certo surplus
di bilancio al netto degli interessi sul debito, da destinare appunto alla riduzione
dell’eccedenza di indebitamento totale.
Secondo le proiezioni ufficiali l’Italia avrà un avanzo primario del 6,4% nel 2014, che dopo il taglio scenderà a 5,7% nel 2015, fino al 4,5% nel 2022 e così via per gli altri anni. Calcolando adesso un rendimento medio dei titoli del debito pubblico del 5,5% (cosa che si ottiene facilmente mantenendo lo spread con i bund tedeschi intorno ai 350-400 punti base), avremo che a causa di questa spesa aggiuntiva per interessi sul debito non sarà affatto possibile arrivare al tanto agognato pareggio di bilancio, senza ricorrere ad ulteriori manovre repressive e peggiorative, che finiranno poi per destabilizzare tutto il contesto (andamento del PIL, ripresa economica, occupazione). Nel grafico sotto si vede che alle condizioni prima ipotizzate, l’Italia manterrà sempre un certo deficit di bilancio (indebitamento netto) fra il -0,5% e il -1% rispetto alle stime più ottimistiche del PIL, per un periodo di circa venti anni.
Secondo le proiezioni ufficiali l’Italia avrà un avanzo primario del 6,4% nel 2014, che dopo il taglio scenderà a 5,7% nel 2015, fino al 4,5% nel 2022 e così via per gli altri anni. Calcolando adesso un rendimento medio dei titoli del debito pubblico del 5,5% (cosa che si ottiene facilmente mantenendo lo spread con i bund tedeschi intorno ai 350-400 punti base), avremo che a causa di questa spesa aggiuntiva per interessi sul debito non sarà affatto possibile arrivare al tanto agognato pareggio di bilancio, senza ricorrere ad ulteriori manovre repressive e peggiorative, che finiranno poi per destabilizzare tutto il contesto (andamento del PIL, ripresa economica, occupazione). Nel grafico sotto si vede che alle condizioni prima ipotizzate, l’Italia manterrà sempre un certo deficit di bilancio (indebitamento netto) fra il -0,5% e il -1% rispetto alle stime più ottimistiche del PIL, per un periodo di circa venti anni.
A questo punto, in un paese normale che non è costretto a subire l’asfissiante ingerenza tedesca nei propri conti pubblici, si accetterebbe questo livello tutto sommato tollerabile di deficit annuale (intorno al -1%) nell’ottica di una più ampia ristrutturazione dell’enorme montagna di debito pubblico accumulato negli anni precedenti. Ma l’Italia non può farlo, perché addirittura sta percorrendo più velocemente di tutti gli altri la strada imposta dallo stesso Fiscal Compact (parole testuali nella Premessa dell’accordo: rispetto dell’obbligo di trasporre la “regola del pareggio” nel sistema giuridico nazionale a livello costituzionale) che suggerisce caldamente ad ogni stato membro di inserire appunto la golden rule del pareggio di bilancio all’interno della propria costituzione e per far vedere ai tedeschi di essere ligio al dovere e ansioso di svolgere il compitino, il governo italiano ha previsto delle clausole ancora più vessatorie.
L’articolo 81 della costituzione (oggetto della
modifica in corso in parlamento)
decreta che “con la legge di approvazione
del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese” e che “ogni altra legge che importi nuove o
maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte” (in pratica implica
che non è possibile apportare correzioni a
posteriori al bilancio dello stato e la necessità di trovare la copertura finanziaria per ogni altra
legge di spesa che non sia stata inclusa a bilancio). L'inserimento in questo articolo del pareggio di bilancio
implicherebbe invece che non solo non ci sia più alcuna correzione a posteriori
ma che si verifichi un controllo esclusivamente ex-ante dell’obiettivo dorato della parità.
Ora, con tutte le
fluttuazioni che esistono in economia (soprattutto in termini di variazione
repentino del tasso di interesse dei titoli di debito pubblico venduti nelle varie
aste) e con il ginepraio di voci contabili che bisogna considerare durante la redazione
del bilancio, sarà oggettivamente difficile assicurare la parità di bilancio ancora prima di averlo compilato. Esiste quindi
un limite procedurale evidente
all’applicazione di una tale norma in costituzione, perché obbligherebbe il
parlamento ad un lavoro madornale e inutile di approvazioni e successive revisioni del bilancio dello stato, fino ad arrivare dopo tanti tentativi,
stremati, alla meta aurea del pareggio di bilancio.
Oltre a questo problema procedurale, le proposte di
modifica dell’articolo 81 tuttora in corso in parlamento prevedono anche
l’inserimento di un tetto limite alla spesa
pubblica che si aggira intorno al 45%
del PIL. A parte la prospettiva fin troppo ottimistica e lusinghiera, visto che
nel 2010 la spesa pubblica è arrivata al 51,2% e le stime per il 2014
quantificano ancora un bel 49%, questo ambizioso obiettivo non tiene conto
delle differenze di gestione del
bilancio che intercorrono fra il governo centrale, regioni, province,
comuni, città metropolitane. In particolare gli enti locali (comuni, province, città metropolitane, comunità
montane) non considerano in bilancio le spese di investimento, ma soltanto le
spese correnti di gestione. Se a questo aggiungiamo tutta la normativa
riguardante le società controllate o partecipate dallo stato, inserendo queste
norme in costituzione (pareggio di bilancio e limite alla spesa pubblica) si
potrebbe in breve arrivare ad uno situazione di congestione e paralisi
assoluta dell’amministrazione pubblica.
Obbiettivi
economici
di questa portata, per quanto corretti da un punto di vista etico e giuridico
(soprattutto quello sul limite della spesa pubblica) non andrebbero mai e poi
mai inseriti in una carta costituzionale
con un valore numerico o una cifra, perchè creano una confusione e
un guazzabuglio micidiale fra i confini giurisprudenziali del diritto e quelli
gestionali della contabilità. Una costituzione
deve rimanere una carta di riferimento per quanto riguarda i diritti, i doveri,
le garanzie, le prerogative etiche e morali che sono alla base della fondazione
di uno stato e della convivenza civile, ma non può e non deve diventare una guida o un libretto di istruzioni per i
contabili dell’amministrazione pubblica
.
.
Allora, verrebbe da
dire, sempre in termini di obiettivi economici, perché non inserire in
costituzione anche la piena occupazione?
Da un punto di vista etico questa regola è ancora più aurea e importante del pareggio
di bilancio, ma sarebbe assurdo inserirla nella costituzione, perché la sua concreta applicazione prescinde dalle
facoltà di uno stato, che non può controllare e prevedere le evoluzioni del
mercato e garantire ex-ante a tutti i cittadini un posto di lavoro. O
accettiamo in toto le regole del libero mercato, di cui lo stato è una parte
integrante, oppure ritorniamo ad una visione statalista e dirigista dell’economia,
che può esse legittima e condivisibile, ma deve inglobare tutti gli ambiti
economici, sia quelli espansivi che restrittivi (va bene il pareggio di
bilancio, ma lo stato deve assicurare anche un contraccambio espansivo come la
piena occupazione).
Forse, astraendoci
per un attimo dalla follia tecnocratica
in cui l’Europa è piombata, sarebbe più auspicabile considerare come regola
aurea quella che una volta il cyborg Monti aveva timidamente accennato
all’austera cancelliera Merkel, ricevendo in risposta un irrevocabile “nein!”.
Il pareggio di
bilancio andrebbe infatti inteso prendendo in considerazione soltanto le spese e le entrate correnti dello stato
e lasciando fuori le spese straordinarie
di investimento (come avviene per gli enti locali), che sono le uniche che,
economicamente parlando, potrebbero invertire la normale progressione di un ciclo espansivo o recessivo. In altri
termini, la norma del pareggio di bilancio integrale risulta un’operazione esterna pro-ciclica perché accentua il fenomeno
economico in corso (soprattutto nel caso di recessione come quella attuale, con
lo stato che continua a tagliare quando invece sarebbe più opportuno spendere),
mentre la possibilità di potere spendere
al di fuori del bilancio da parte dello stato per stimolare la domanda,
limitare la disoccupazione, ripartire con gli investimenti mirati (possibilmente
sostenibili e razionali, non il ponte sullo Stretto di Messina) potrebbe alla
fine rivelarsi un intervento
anti-ciclico e rilanciare l’economia stagnante di un’intera nazione (non mi
dilungo con tutti gli esempi storici che potrebbero essere tirati in ballo per
avvalorare questa tesi).
3) I “fattori rilevanti”
(articolo 3, comma a)
Nell’articolo 3
dell’accordo intergovernativo Fiscal Compact è riportato quanto segue: “Le parti contraenti possono temporaneamente
sostenere deficit solo per tener conto dell’impatto sul bilancio del ciclo
economico e, al di là di tale impatto, in caso di circostanze economiche
eccezionali, o in periodi di grave recessione economica, a condizione che ciò
non metta a repentaglio la sostenibilità di bilancio a medio termine”.
Precisando poi che
per “circostanze economiche eccezionali si intende
un evento inconsueto non soggetto al controllo della Parte contraente
interessata, che ha un forte impatto sulla posizione finanziaria del governo”.
Il presidente Monti
ha esultato quando ha avuto la conferma che questa clausola dei “fattori rilevanti o attenuanti” era
stata inserita nell’accordo, anche se rimane la solita ambiguità di fondo del
linguaggio tecnocratico europeo sul significato preciso delle parole e della
loro corretta interpretazione. Siamo sempre lì, siccome è impossibile prevedere
e affrontare con rigidità l’andamento dei cicli economici, bisogna mantenere
una certa elasticità di giudizio sulle singole situazioni nazionali. Ma allora, se anche i tecnocratici hanno
chiaro questo concetto, perché obbligare
gli stati ad inserire la norma del pareggio di bilancio in costituzione?
E’ chiaro che
l’arbitrarietà di interpretazione della frase “circostanze economiche eccezionali” porterà come sempre alla
caotica deriva della regola stessa e ogni paese continuerà ad andare per la sua
strada ignorando del tutto o in parte le direttive dell’Unione Europea (che
come già accaduto in passato, con oltre 70 violazioni al precedente Patto di
Stabilità e Crescita, perderà ancora credibilità istituzionale non solo in
ambito interno ma anche in quello internazionale). Ma se risulta semplice svicolare dalle norme europee comunitarie, sarà più complicato per ogni singolo stato non tenere conto delle proprie leggi costituzionali interne (ecco perchè la Germania ha insistito molto su questo obbligo costituzionale).
Fra l'altro, la possibilità poi
per i paesi più forti, come Germania
e Francia, di trasgredire le norme europee è ancora più blindata dal successivo articolo 7, che stabilisce che per rendere
effettiva una sanzione per il paese che ha superato i limiti imposti di
disavanzo di bilancio è necessaria la votazione favorevole della “maggioranza qualificata” dei membri del
Consiglio europeo (secondo il Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea,
articolo 238, comma 3, a, per maggioranza qualificata si intende almeno il 55%
dei membri del Consiglio rappresentanti gli Stati membri partecipanti che totalizzino
almeno il 65% della popolazione di tali Stati).
Ora, a prescindere
dai dati sulla popolazione (soltanto i tecnocrati europei potevano decidere una
norma simile), potete immaginare da soli quale opera di pressione e sudditanza
psicologica esercitino i membri
tedeschi sugli altri membri del Consiglio europeo, che tradotto in termini
più espliciti, significa che la Germania non riceverà mai sanzioni e se
qualcuno avrà il coraggio di denunciarla, dovrà prepararsi a subire le violente
ritorsioni tedesche.
In conclusione, per
chi si fosse perso qualche pezzo delle puntate precedenti, spieghiamo ancora
una volta, con l’aiuto di due grafici,
il motivo per cui la Germania sarà l’unica ad avvantaggiarsi di un obbrobrio
giuridico come l’accordo del Fiscal Compact. Imponendo a tutti gli altri paesi
dell’Unione Europea e a se stessa il pareggio di bilancio, la Germania sarà il solo stato che continuerà a prosperare in mezzo al
deserto più assoluto delle altre nazioni europee periferiche (Francia compresa), dato che potrà contare per un
po’ (non si sa però per quanto tempo ancora) su un consistente attivo della bilancia dei pagamenti
(vedi grafico sotto, dove l’andamento tedesco del rapporto bilancia pagamenti/PIL è chiaramente crescente e
positivo mentre quello di tutti gli altri paesi più importanti è decrescente e
negativo).
Ovvero dato che nessuno stato europeo potrà più immettere ricchezza netta nei suoi mercati tramite il deficit di bilancio, la Germania spera di continuare a ricevere ricchezza dall’estero, mantenendo un forte saldo in attivo fra le entrate da esportazioni commerciali o altri profitti finanziari e le uscite per pagare le importazioni e le perdite con l’estero.
Ovvero dato che nessuno stato europeo potrà più immettere ricchezza netta nei suoi mercati tramite il deficit di bilancio, la Germania spera di continuare a ricevere ricchezza dall’estero, mantenendo un forte saldo in attivo fra le entrate da esportazioni commerciali o altri profitti finanziari e le uscite per pagare le importazioni e le perdite con l’estero.
Dal grafico ancora
sotto (aggiornato al 2008, ma la situazione non è molto cambiata ad oggi), si
vede invece che i maggiori volumi di
esportazioni tedesche (ben oltre
il 62% e la tendenza è ancora crescente) sono destinati verso i paesi dell’Unione
Europea: dunque senza una politica economica unificata che incentivi le esportazioni
complessive verso i paesi esterni all’Unione Europea (Stati Uniti e Cina in testa), ciò significa che la
Germania continuerà ancora a fare la voce grossa in Europa e ad arricchirsi principalmente sulle spalle dei suoi stessi presunti
alleati europei (considerati invece dai tedeschi come semplici consumatori dei
loro prodotti), mentre questi ultimi perdono sempre maggiore competitività nei
confronti della superpotenza teutonica (soprattutto i 16 paesi dell’eurozona che non possono più agire e concorrere sul versante dei
prezzi perché non hanno più una loro sovranità
monetaria e non sono più in grado perciò di svalutare temporaneamente la propria moneta per rilanciare le
esportazioni e riportare in attivo la bilancia dei pagamenti).
Consideriamo pure che la Germania, grazie al supporto della potente banca centrale Bundesbank, è in grado di manipolare le aste di collocamento dei suoi titoli di stato per mantenere artificialmente basso il rendimento dei bund (come descritto in questo articolo) e avremo un quadro generale della situazione abbastanza chiaro ed eloquente. I tedeschi non vogliono pagare i costi della crisi e preferiscono che i siano i “paesi spendaccioni” della periferia a pagare anche per loro. E visto che al momento, la Germania ha tutto da guadagnarci in mezzo al pandemonio dei debiti pubblici fuori controllo e nulla da perdere, meglio lasciare le cose come stanno e non cambiare niente dell’assetto generale dell’Europa (al massimo irrigidire le forme di controllo).
Casomai quando i fondamentali economici della Germania cominceranno a mostrare le prime crepe (produzione ed esportazioni in calo), allora si potrà ridiscutere del ruolo della BCE, dell’introduzione degli eurobond, ci saranno riunioni torrenziali fino a tarda notte, lunghe trattative per raggiungere un accordo che possa come al solito soddisfare gli interessi tedeschi. E tutti gli altri paesi saranno costretti ad esultare e ad applaudire alla magnanimità e alla lungimiranza del ruolo di guida della Germania, che ha il compito ingrato di trainare il macchinoso carrozzone caracollante chiamato Unione Europea. Questo in sintesi è ciò che ci aspetta nei prossimi anni. Chi ha orecchie per intendere, intenda.
Consideriamo pure che la Germania, grazie al supporto della potente banca centrale Bundesbank, è in grado di manipolare le aste di collocamento dei suoi titoli di stato per mantenere artificialmente basso il rendimento dei bund (come descritto in questo articolo) e avremo un quadro generale della situazione abbastanza chiaro ed eloquente. I tedeschi non vogliono pagare i costi della crisi e preferiscono che i siano i “paesi spendaccioni” della periferia a pagare anche per loro. E visto che al momento, la Germania ha tutto da guadagnarci in mezzo al pandemonio dei debiti pubblici fuori controllo e nulla da perdere, meglio lasciare le cose come stanno e non cambiare niente dell’assetto generale dell’Europa (al massimo irrigidire le forme di controllo).
Casomai quando i fondamentali economici della Germania cominceranno a mostrare le prime crepe (produzione ed esportazioni in calo), allora si potrà ridiscutere del ruolo della BCE, dell’introduzione degli eurobond, ci saranno riunioni torrenziali fino a tarda notte, lunghe trattative per raggiungere un accordo che possa come al solito soddisfare gli interessi tedeschi. E tutti gli altri paesi saranno costretti ad esultare e ad applaudire alla magnanimità e alla lungimiranza del ruolo di guida della Germania, che ha il compito ingrato di trainare il macchinoso carrozzone caracollante chiamato Unione Europea. Questo in sintesi è ciò che ci aspetta nei prossimi anni. Chi ha orecchie per intendere, intenda.
La provocazione di
indire un referendum per chiedere agli italiani cosa ne pensano di questo
Fiscal Compact e della prospettiva di una dittatura
della Germania in Europa è quindi più seria di quello che può sembrare:
magari, pur sapendo come stanno le cose, qualcuno può essere d’accordo e
ritenere che sia conveniente lasciarsi guidare dall’autorità tedesca, ma altri
invece, dopo la fase iniziale del sogno e dell’oblio, cominciano lentamente a
svegliarsi e ad aprire gli occhi sul reale significato dell’Unione Europea
oggi. E forse sarebbe giusto contarli, vedere quanti sono, chiedere la loro
opinione, perché la democrazia in fondo funziona così.
Per la cronaca, il
Fiscal Compact deve essere votato definitivamente dai 25 paesi membri entro l’1 marzo del 2012 e poi ogni governo
deciderà da solo quale strada intraprendere per la ratifica. E’ ovvio che il
cyborg Monti, supino vassallo tedesco, opterà con l’appoggio dei suoi compari
di maggioranza per la via parlamentare, ma c’è ancora tempo per fare sentire la
nostra voce e chiedere invece un referendum, che non cambierà sicuramente le
carte in tavola (i tecnocrati troveranno purtroppo il modo di aggirarlo), ma
almeno sarà una cartina di tornasole per misurare, numeri alla mano, il gradimento popolare nei confronti di questi
oscuri piani di sabotaggio della democrazia.
LA “ COVENTRY-ZZAZIONE” DELL’ITALIA, E LA GIUSTIZIA NEL VERO POTERE
RispondiElimina"Leggendo le pagine del Treaty on Stability, Coordination and Governance in the Economic and Monetary Union, comunemente conosciuto come Fiscal Compact firmato il 31 gennaio dai capi di Stato e di governo della zona Euro, ho compreso che qui non stiamo più parlando di un golpe per controllare gli Stati sovrani d’Europa, ma proprio di un bombardamento a tappeto che non lascerà che cenere di tutto ciò che conoscevamo come democrazia, redditi e Stato di diritto in Italia"
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=9822
Non esiste un solo partito politico, che urli a squarciagola, lo scempio antidemocartico, antisociale, e antieconomico, che stanno compiendo sulla testa del "popolo dormiente" europeo.
In Italia poi, con i tagli terroristici, e tasse a go-go, affonderemo ad una velocità più repentina, dell'attuale "Tragedia Greca".
E tutto il main-stream a spiegarci che l'Italia è ormai salva, e con la precarizzazione sistemica di ogni lavoro, ci sarà progresso e sviluppo senza precedenti nella storia dell'umanità. E sembra che ormai tutti ci credano, persino alcuni settori del sindacato.
Omologazione in avanzato stato di attuazione e compimento!!!!!!!!
Agli "ILLUMINATI", del governo, delle istituzioni, e dei Poteri Globali Oligarchici, va tutto il mio disgusto e disprezzo furibondo!!!!
saluti, Nicola.
La situazione è davvero inquietante, perchè nessuno di questi presunti politicanti e tecnocrati sembra avere ancora capito la vera natura del problema...come ho scritto nel successivo articolo sul sistema TARGET2, il problema dell'Europa risiede nello squilibrio del suo sistema finanziario ed economico, che non può essere risolto mettendo a valle, sul popolo, maggiori tasse, ma prevedendo a monte dei correttivi...questi sono dei pazzi furiosi, perchè in un sistema disfunzionale bisogna cercare di mettere i paesi che producono di meno in condizione di produrre di più (investimenti), non li puoi tassare con l'austerità e il rigore di bilancio perchè se no lo stato di squilibrio all'interno del sistema peggiorerà...una volta che avremo pagato tutti i nostri debiti, come faremo poi a pagare i prodotti che ci servono per vivere??? I debiti si pagano producendo di più e non con le tasse...e questi, o fanno finta di non capire perchè sono dei criminali oppure non capiscono proprio perchè sono degli idioti...a presto. Piero
EliminaAnche l'Irlanda ha approvato in referendum il Fiscal Compact.
RispondiEliminaSaluti, Marco.
Non avete ancora ben compreso che il vecchio modello è stato rottamato, per i prossimi venti anni sarà principalmente pagamento del debito. Punto e basta. Con tutto le conseguenze economiche e sociali che provocherà. Qui siamo ad una rivoluzione-involuzione. Siamo già proiettati da un pezzo, ad un ritorno nel passato progettato scientemente e applicato gradualmente giorno dopo giorno.
RispondiEliminaCiao
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