giovedì 19 gennaio 2012

DEBITO PUBBLICO E INFLAZIONE: DUE FANTASMI PER NASCONDERE LA FINE DELLA SOVRANITA’ MONETARIA


Partiamo da una considerazione di carattere generale: quando qualcuno ha un grave problema da risolvere, nel caso dell’Italia si tratta dell’alto rendimento dei titoli di stato a cui è costretta a rifinanziare l’enorme debito pubblico (che oscilla attualmente fra il 6%-7% di interesse passivo nel mercato secondario ed è misurato dallo spread con i titoli bund tedeschi), cerca con tutti i mezzi a disposizione di porre rimedio nell’immediato, ma allo stesso tempo è istintivamente portato suo malgrado ad esaminare il passato per ricercare i motivi che hanno causato quel problema ed evitare di commettere gli stessi errori in futuro.

Oggi quasi tutti gli analisti e gli osservatori finanziari mainstream concordano nel dire, a torto o a ragione, che il vero grande problema dell’Italia è di carattere strutturale e risiede appunto nel colossale ammasso di debito pubblico accumulato negli ultimi 30 anni (quasi 1920 miliardi di euro secondo le ultime stime), che suscita lo scetticismo da parte degli investitori internazionali riguardo alla possibilità dello stato italiano di ripagarlo e la conseguente richiesta di elevati rendimenti per coprire l’alto rischio di investimento e avere ancora convenienza a comprare altri titoli di debito italiano.


Tuttavia sono sempre pochi quelli che spiegano il motivo per cui il debito pubblico è davvero un problema o la causa dell’aumento inarrestabile del debito stesso, che ha portato nel giro di qualche decennio l’Italia a passare dal ristretto conclave delle 5 nazioni più ricche e sviluppate del mondo fino ai limiti dell’attuale default e fallimento finanziario, perché in questo caso bisognerebbe rimettere in discussione talmente tanti dettagli  e anomalie della caracollante e stantia politica monetaria europea in cui l’Italia è incastrata, da scoraggiare la capacità di analisi dei giornalisti e degli accademici mainstream più irriverenti e scrupolosi (non trascuriamo però la possibilità che pur sapendo tutto questi menestrelli di regime non descrivono chiaramente i fatti perché non vogliono o non possono parlare o peggio ancora perché sono direttamente pagati per tacere dagli stessi che hanno avuto non poche responsabilità e vantaggi dalla creazione del problema).

A questo punto, come sempre accade in questi casi, bisogna arrangiarsi da soli, partendo dallo studio dei dati reali e facendo alcune considerazioni sulle scelte adottate in passato dalla classe dirigente italiana per fronteggiare quello che viene considerato appunto il problema dei problemi: il debito pubblico e il suo alleato più agguerrito che è l’inflazione. Conducendo in modo sintetico la nostra analisi storica, teniamo anche d’occhio il comportamento della banca centrale nazionale, la Banca d’Italia per intenderci, e il regime di cambio della moneta, che come sappiamo può essere fisso (ovvero ancorato ad un bene materiale come l’oro o ad un’altra valuta estera) oppure flessibile (il tasso di cambio della moneta può fluttuare liberamente nel mercato dei cambi, in base ai meccanismi automatici di adeguamento della bilancia dei pagamenti e alla richiesta o offerta di moneta sui mercati).

Questi quattro fattori (debito pubblico, inflazione, regime di cambio, comportamento della banca centrale) sono le variabili su cui faremo ruotare tutti i nostri ragionamenti e tireremo le conclusioni finali.

Vediamo innanzitutto il grafico dell’andamento storico del rapporto debito/PIL nel periodo 1950-2010 pubblicato dal giornale on line Linkiesta, per capire l’evoluzione nel tempo del fenomeno e valutare gli elementi che hanno influenzato il cambiamento di rotta.




Le variazioni del rapporto debito/PIL nel periodo 1950-1970 sono minime e si aggirano su una media abbastanza bassa del 30% (livello davvero irrisorio se confrontato con il nostro attuale 120%) e anche l’inflazione è molto contenuta perché varia da un minimo del -2% nel 1958 (quindi i prezzi al consumo si abbassavano e aumentava il potere di acquisto della moneta nazionale, la lira) ad un massimo del 8,1% nel 1963, con un’inflazione media nel periodo di appena il 3,3%.

Nel settore della politica monetaria, la Banca d’Italia era completamente al servizio dello Stato Italiano, perché oltre ad assicurare uno scoperto di conto corrente per le spese straordinarie di investimento statale, partecipava alle aste pubbliche di collocamento dei titoli di stato per far fronte alle necessità di spesa corrente, sia come prestatore di ultima istanza nel caso una parte dei titoli rimanesse invenduta sia come moderatore del rendimento al margine (la tipologia di asta marginale consentiva di fissare il rendimento in base all’ultima offerta che copriva l’intera domanda di liquidità richiesta dallo stato) comprando volontariamente l’ultima quota di titoli in asta per evitare di pagare elevati rendimenti accontentando le offerte più ribassiste degli investitori.

Il tasso di cambio della moneta era fisso, perché in base agli Accordi di Bretton Woods del 1944, tutte le monete internazionali dovevano avere un rapporto di cambio fisso con il dollaro e solo quest’ultimo era convertibile in oro al prezzo di 35 dollari all’oncia, mantenendo quindi in teoria una sorta di parità fra la quantità di dollari circolanti e l’oro custodito nei forzieri delle banche centrali (parità in effetti mai rispettata che portò alla cancellazione improvvisa di questo anomalo regime Gold Exchange Standard nel 1971 per mano del presidente americano Richard Nixon).

La situazione di grande crescita economica degli Stati Uniti trainò nel suo vortice anche l’Italia, che in quel periodo visse il momento d’oro della sua espansione e del miglioramento delle condizioni generali di vita, applicando alla lettera delle politiche monetarie di tipo keynesiano che inducevano ad un notevole ricorso alla spesa pubblica come principale fonte di stimolo della domanda aggregata di beni e servizi: avendo questo aggancio esterno al dollaro e tramite il controllo interno del tasso ufficiale di sconto del denaro, il Ministero del Tesoro poteva modulare perfettamente l’offerta di moneta in base all’andamento della produzione reale e dei consumi, mantenendo l’inflazione in un corridoio abbastanza stretto.

A partire dal 1971, il quadro generale cambiò radicalmente non tanto per l’introduzione del regime flessibile di cambio, che sganciando la lira dal dollaro aveva finalmente concesso una reale sovranità monetaria all’Italia, ma perché a causa di una crisi geopolitica internazionale i paesi produttori di petrolio dell’OPEC avevano cominciato a speculare sull’aumento del prezzo al barile del petrolio (da 3 dollari fino a 12 dollari), con un innalzamento a cascata di tutti i prezzi al consumo, dato che l’intero sistema produttivo e industriale italiano è legato fortemente al costo dell’energia e ha una forte dipendenza dal petrolio in particolare: come conseguenza si ebbe un balzo repentino dell’inflazione che schizzò al livello record del 25,2% nel novembre del 1974.

Non entro nel merito delle lotte sindacali e delle grandi conquiste in termini di solidità dello stato sociale che erano state ottenute in quel periodo (Statuto dei Lavoratori nel 1970, introduzione della cassa integrazione, miglioramento del sistema pensionistico), ma grazie a queste ultimi strumenti di garanzia dei diritti dei lavoratori il governo italiano non poteva più contare sulla cosiddetta svalutazione interna (abbassamento dei salari dei lavoratori per aumentare la competitività dei prodotti italiani sui mercati internazionali) e preso dal panico cominciò a perdere letteralmente la bussola.

Invece di considerare le origini che avevano causato questa crisi congiunturale cominciò a lavorare solamente sugli effetti: per intenderci, invece di affrontare di petto i problemi strutturali dell’economia italiana in termini di spesa pubblica improduttiva, innovazione, ricerca, sviluppo, infrastrutture e studiare un serio piano energetico nazionale che limitasse la sua dipendenza dal petrolio, lo stato inaugurò il triste periodo delle svalutazioni esterne della moneta per aumentare maggiormente la competitività italiana all’estero, puntando esclusivamente sul fattore prezzo piuttosto che sulla qualità, l’efficienza e lo sviluppo di nuove metodologie produttive.

Sempre nel campo della limitazione degli effetti e non della soluzione delle cause, nel 1975 lo Stato su pressioni dei sindacati introdusse il meccanismo della scala mobile che adeguava gli stipendi dei lavoratori all’aumento tendenziale dell’inflazione, creando un vizioso avvitamento fra incremento dei prezzi, aumento degli stipendi e ulteriore incremento dei prezzi al consumo, senza eliminare di fatto il problema di fondo: l’inflazione infatti aumentava a causa dell’elevato costo per l’energia e non per un eccesso o un difetto di moneta circolante.

Possiamo tranquillamente affermare che lo stato italiano nel suo complesso cominciò ad arretrare proprio nel periodo in cui era giunto il momento di avanzare con l’innovazione e con l’audacia, dato che aveva ottenuto una piena indipendenza, sovranità e autonomia in campo monetario (non in campo politico però, perché l’Italia ha dovuto sempre sopportare una certa sudditanza e un ruolo subalterno nei confronti della superpotenza americana): soffrendo per essere rimasta orfana del dollaro e avendo poca capacità di autoregolarsi in campo monetario, l’Italia decise proprio in quegli anni di stringere il patto di ferro con la forte Germania, che avrebbe portato la nazione ad aderire nel marzo 1979 allo SME (Sistema Monetario Europeo), che sarebbe in pratica l’anticamera dell’attuale Unione Monetaria.

In base a questo accordo, gli stati aderenti (Germania, Francia, Italia, Danimarca, Paesi Bassi e Lussemburgo) si impegnavano a mantenere una fluttuazione rigida delle monete del 2,5% all’interno di un particolare paniere chiamato ECU, con la sola eccezione dell’Italia che proprio a causa della sua elevata inflazione poteva avere un margine di fluttuazione superiore (6%): in questo modo tutte le monete ancoravano il proprio valore di cambio a quello del marco tedesco, che essendo la moneta più forte e avendo alle spalle il paese con maggiori volumi di esportazioni, trainava tutte le altre monete e limitava il campo di azione delle singole banche centrali (il marco diventava la moneta di riserva principale al posto del dollaro e ogni banca centrale era costretta a comprare o vendere marchi per equilibrare le oscillazioni della propria moneta nazionale, impedendo in pratica quei meccanismi automatici di adeguamento dei tassi di cambio che si stabiliscono in base ai volumi di esportazione o importazione dall’uno o dall’altro paese).

Il debito pubblico in questo periodo non è ancora un problema perché il suo rapporto con il PIL oscilla fra il 44% e il 58%, ma il vero nemico da combattere (almeno secondo le tesi strampalate dei governanti di turno) è l’inflazione, perché in Italia, così come in molte altre parti del mondo, si tende sempre a rimanere in superficie e ad esternalizzare le questioni in qualcosa di astratto (vedi appunto inflazione o lo stesso debito pubblico, che vengono spesso evocati come dei veri e propri fantasmi infernali), piuttosto che andare a fondo alla vera radice concreta di ogni singola questione: per uno stato con moneta sovrana il reale problema legato al denaro non è quanto spendi ma come spendi, perché solo la parte di spesa pubblica improduttiva (l’assistenzialismo di stato fine a stesso per i soggetti che non solo non hanno alcun diritto a ricevere sussidi ma non vengono nemmeno inseriti in programmi di formazione e aggiornamento utili ad un rapido inserimento nel mercato del lavoro e al raggiungimento della piena occupazione) crea aumenti di inflazione, mentre il resto viene assorbito da una maggiore offerta di beni e servizi oppure viene drenato con una seria politica fiscale.

Comunque con il pretesto di combattere appunto l’inflazione e assicurare all’Italia la permanenza nell’area SME, nel luglio del 1981 il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta (1928-2007, foto sopra) sancisce il divorzio fra Banca d’Italia e lo stato, impedendo di fatto alla banca centrale di partecipare alle aste di collocamento dei titoli di debito pubblico e spalancando le porte alle banche commerciali che potevano tranquillamente decidere tramite cartelli o accordi sottobanco quale sarebbe stato il rendimento migliore da strappare ad ogni asta di nuovi titoli (l’impennato del rendimento arrivò fino al 12%-13% a metà anni ottanta, praticamente il doppio dell’attuale 6%-7%).

Dopo il ritorno al regime dei cambi fissi, questa fu la seconda mazzata che amputò definitivamente la ritrovata sovranità monetaria dell’Italia (che durò soltanto lo spazio di 8 anni, dal 1971 al 1979) e con i tassi di rendimento così elevati, sia a breve che a lungo termine, cominciò l’inarrestabile cavalcata del debito pubblico fino al livello record del rapporto debito/PIL del 121,8% nel 1994 (che dopo la leggera discesa seguita alla politica dei grandi tagli del governo Amato nel 1992 è rimasto pressoché invariato fino ai nostri giorni), perché contemporaneamente con questo massiccio spostamento di investimento dal campo produttivo a quello finanziario si assiste anche ad una progressiva stagnazione della produzione interna con bassi tassi di crescita (vedi grafico sotto che analizza la variazione del prodotto interno lordo nazionale PIL dal 1985 fino in previsione al 2015), che in ogni caso non erano più in grado di compensare il superiore incremento del debito pubblico (il numeratore cresceva in modo più rapido del denominatore).



A questo punto occorre sottolineare che il debito pubblico non è un problema in quanto tale, ma lo diventa per il modo in cui è stato creato: il debito pubblico accumulato da una nazione con moneta sovrana può diventare la ricchezza di uno stato e dei suoi cittadini (vedi recenti analisi e studi degli economisti americani della MMT, Modern Money Theory) se la spesa pubblica viene incanalata verso piani produttivi coerenti (che non significano soltanto crescita economica e sostegno dell’imprenditoria privata fuori controllo, ma anche per esempio tutela del paesaggio e prevenzione dei rischi idrogeologici, che in quanto costi futuri evitati diventano un profitto netto e reale per lo stato e dovrebbero a pieno diritto rientrare nelle voci del bilancio), mentre il debito pubblico diventa un grave problema se viene contratto con una moneta non più sovrana ma estera (qualsiasi aggancio ad un'altra moneta straniera comporta la perdita di sovranità) e veicolato verso settori non produttivi ma speculativi come quelli finanziari e bancari, che con il tempo sulla scia del solito traino americano e anglosassone hanno subordinato la loro normale attività creditizia di sostegno alle imprese alla ricerca di una rendita più sicura e certa con gli investimenti finanziari (con il metodo assurdo della socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti, il rischio di investimento delle banche è stato garantito dai salvataggi pubblici e trasferito in toto agli stati, che pur essendo poi le vittime sacrificali sono inizialmente i principali fautori della speculazione finanziaria, e l’articolo 8 dell’ultima manovra del governo Monti, con le misure per la stabilità del sistema creditizio, non fa che confermare questa spregevole tendenza).  

A completare questo lungo ma irreversibile processo di espropriazione della sovranità monetaria da parte delle istituzioni bancarie private, nel 1992 il ministro Guido Carli, guarda caso ex governatore della Banca Italia, con un decreto legge stabilisce che “le variazioni del tasso di sconto sono disposte dal governatore della Banca d’Italia con proprio provvedimento” e non più dal Ministro del Tesoro, togliendo allo stato l’ultima carta per agire in campo di politica monetaria e regolamentare l’offerta di moneta.
Il resto è storia relativamente recente, con le manovre lacrime e sangue del governo Amato nel settembre 1992 per arginare la speculazione sulla lira, che ha costretto alla svalutazione e all’uscita temporanea dallo SME, l’adesione al Trattato di Maastricht dell’Unione Europea, l’ingresso nell’Unione Monetaria e tutte quelle limitazioni che hanno soltanto spostato la sovranità monetaria insieme a buona parte della residua sovranità politica dalla Banca d’Italia alla BCE, senza cambiare lo schema di fondo che priva lo stato di qualsiasi autonomia decisionale in campo monetario e vincola le esigenze di finanziamento per la spesa pubblica di un intero stato democratico (?) alle decisioni e agli umori degli investitori istituzionali autorizzati dal Ministero delle Finanze a partecipare alle aste di collocamento dei titoli di stato (in Italia sono attualmente venti fra cui Unicredit, Montepaschi, Intesa e la temutissima Goldman Sachs).
Se analizziamo nel grafico sotto l’andamento dell’inflazione nel periodo 1980-2003 fornito dal CCIAA di Trieste, notiamo che in effetti dopo la decisione del ministro Andreatta di rompere il legame fra Banca d’Italia e lo stato (fine della politica fiat money, ovvero la creazione libera di nuova liquidità per coprire le esigenze di finanziamento dello stato) abbiamo assistito ad una rapida flessione dell’inflazione, ma a quale prezzo verrebbe da dire.

La discesa dell’inflazione ha provocato l’impoverimento progressivo dello stato e della sua capacità di spesa, trasferendo la liquidità e i profitti dentro le casse delle banche private e delle società di investimento straniere, che continuano ancora oggi a lucrare sulle disgrazie di un’intera nazione: l’aggancio della lira all’andamento del marco tedesco ha costretto l’Italia a seguire delle politiche di rigore di bilancio e di austerità fiscale tanto care alla Germania, che non sono però assolutamente adeguate ad uno stato che deve ancora completare il suo percorso di assestamento strutturale e minacciano qualsiasi possibilità di ripresa economica.
In conclusione, possiamo soltanto ribadire che debito pubblico e inflazione non sono mai stati un vero problema per uno stato che ha una piena sovranità monetaria ed economica (una sua banca centrale di emissione, una moneta che abbia un tasso di cambio flessibile e modulabile con le altre valute estere, un solido tessuto produttivo e una corretta politica fiscale), mentre lo diventavano in una nazione come l’Italia di oggi che non ha più una sua banca centrale di riferimento (la BCE non può per statuto dare sostegno diretto agli stati dell’Unione Europea, mentre è molto più generosa nei confronti delle banche private, che paradossalmente sono diventate non solo più forti degli stati dal punto di vista economico ma anche più importanti delle nazioni in ambito strategico, perché se il fallimento di un intero stato europeo è tuttora ammissibile, vedi caso Grecia, non lo è quello di una qualsiasi banca che ho svolto male o in maniera superficiale il suo lavoro di investimento), non ha più una sua moneta ma è agganciata ad una valuta estera come l’euro ed è costretta a dipendere dai finanziamenti esterni per sopperire ai suoi comprensibili bisogni di liquidità.
La fanatica pretesa neoliberista di far funzionare gli stati come delle aziende private, con l’assillo del pareggio o addirittura dell’avanzo di bilancio, si scontra con la struttura dei costi e le necessarie inefficienze che uno stato deve per forza di cose avere rispetto ad una società per azioni: un’azienda può contare su una forza lavoro attiva al cento per cento mentre uno stato deve garantire assistenza e istruzione ad anziani, malati, bambini e ragazzi, l’azienda non ha vincoli stringenti di tutela ambientale mentre uno stato deve considerare questo obiettivo come una delle sue principali priorità, uno stato deve garantire servizi e diritti costituzionali come l’amministrazione della giustizia, la difesa della dignità umana, il mantenimento dell’ordine pubblico, programmi di piena occupazione lavorativa, politiche di redistribuzione del reddito che in un ipotetico rendiconto dei costi e benefici provocano soltanto delle spese ed è difficile valutare in termini di profitti (quanto costa essere giusti? Equi? Liberi? Solidali? Qualcuno ha mai pensato di dare un prezzo ai valori etici o umani che sono alla base della fondazione di uno stato democratico?)
La frenesia di veicolare ingenti quantità di capitali verso l’alto affamando il resto della popolazione ha condotto l’umanità intera verso un tunnel stretto dove l’uscita non ha più soltanto attinenza con fattori economici ma con la logica in quanto tale: quando quest’ultima finirà per prevalere potremmo ridiscutere allora se le politiche keynesiane di drogaggio delle domanda aggregata e sostegno dell’investimento privato asfittico siano davvero l’unica soluzione per uscire dall’ultima e forse definitiva crisi del capitalismo, oppure esistono altri metodi per rilanciare lo sviluppo economico sostenibile (non la crescita, perché questo è un concetto che rientra ancora nella sfera privatistica degli affari e non nel campo dei doveri di uno stato sovrano, che può sopportare fasi di contrazione economica a patto di sfruttare questi periodi per elaborare nuovi piani e programmi di riorganizzazione sociale, fiscale, politica, ambientale delle sue infrastrutture) e consentire la necessaria spesa a deficit dello stato, mentre in una fase di annebbiamento e isteria collettiva come quella attuale possiamo solo sperare di limitare i danni in attesa di una ritrovata e provvidenziale lucidità (ampliare i compiti della BCE, facendola diventare una vera banca centrale a sostegno degli stati dell’Unione Europea come prestatore di ultima istanza, come accade già negli Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna, potrebbe essere una buona soluzione intermedia per allontanare quantomeno lo spettro della speculazione finanziaria e fare un passo in avanti verso la costruzione di una vera Unione Europea democratica).     

24 commenti:

  1. Articolo encomiabile, complimenti complimenti e complimenti!!!
    Vorrei leggerlo sul Corriere della sera o su La Repubblica...

    Saluti

    David

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    1. Grazie David!
      Il motivo che mi ha spinto ad aprire questo blog è proprio quello che hai ricordato tu sopra: la mancanza di articoli simili sui giornali "ufficiali"...qualunque suggerimento, consiglio, idea per nuovi articoli è sempre benvenuta perchè questo blog è un contenitore aperto a tutti...

      Grazie ancora

      Piero

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    2. Mi sono avvicinato alla questione, anzi, alla Questione, con il saggio di P. Barnard "Il più grande crimine", che tu sicuramente conoscerai.
      E' mio intento approfondire la questione soprattutto dal punto di vista tecnico e penso che tu abbia le capacità per aiutarci.
      Ad esempio, se uno stato inizia ad adottare la teoria economica MMT, quali saranno le ripercussioni internazionali? L'importazione di materie prime prezzate in dollari?

      Sarò un tuo assiduo lettore.

      Saluti,

      David

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    3. Grazie per la fiducia David,
      io ho letto il libro di Barnard e lo trovo illuminante su molti punti...purtroppo però come già saprai il modello MMT non è applicabile ai paesi dell'eurozona che non hanno più una moneta sovrana...mentre se consideriamo il dollaro, le teorie MMT sono ancora valide e soltanto un limite ideologico impedisce al governo americano di applicare la pratica della spesa a deficit...per quanto riguarda la tua domanda, le ripercussioni internazionali e l'apprezzamento del dollaro sul mercato dei cambi non dipende soltanto da scelte di politica interna (la spesa a deficit) ma soprattutto dal saldo della bilancia dei pagamenti (per intenderci la differenza fra esportazioni ed importazioni degli Stati Uniti da e verso gli altri paesi)...siamo sempre lì, se la spesa a deficit viene utilizzata in modo produttivo ed efficace per aumentare le esportazioni, l'offerta e la domanda di beni e servizi, le infrastrutture dello stato allora le ripercussioni internazionali sono minime, perchè non si crea inflazione interna e svalutazione della moneta sui mercati...mentre se la spesa a deficit dello stato viene utilizzata in modo improduttivo (per intenderci, sussidi a pioggia che non creano le basi di uno sviluppo sostenibile e di una ripresa economica), allora l'inflazione e la svalutazione possono diventare un problema e le importazioni potrebbero con il tempo costare molto care agli americani...è giusto precisare però (lo farò quanto prima nel blog) che io non sono un'economista in senso stretto (anzi gli economisti moderni non mi piacciono per niente perchè hanno troppi paraocchi e troppi pregiudizi preconcetti), ma sono un ingegnere gestionale che da alcuni anni mi occupo dello studio e implementazione di sistemi gestionali complessi e il sistema monetario è uno di quelli che mi affascina di più perchè è totalmente irrazionale e insostenibile...ma anche quello politico non scherza!!! Spero di esserti stato utile...

      A presto

      Piero

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    4. ottimo! Puntuale e chiaro come pochi.

      A presto

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  2. Una unica osservazione, Lei parla della teoria MMT, gradirei conoscere il suo pensiero a proposito, ovvero se tale teoria include la sovranità Monetaria.
    Se invece non pensa al ritorno della sovranità, come ritiene che il tutto sia compatibile con al situazione attuale ed ancora peggio nel futuro?
    Grazie
    Orazio

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  3. Ciao Orazio,
    la teoria MMT presuppone la sovranità monetaria come caposaldo principale e infatti può essere applicata solo nei paesi che hanno moneta sovrana (Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone)...nell'eurozona invece, che non ha più una moneta sovrana dal 2002 data di introduzione dell'euro, le teorie monetarie MMT non sono assolutamente applicabili...quindi prima bisognerebbe cambiare la BCE in una vera banca centrale di sostegno agli stati (cioè gli stati dell'eurozona dovrebbero avere un proprio conto corrente all'interno della BCE), poi eliminare gli assurdi vincoli di pareggio o surplus di bilancio imposti dall'Unione Europea, e solo dopo la riconquista di una piena sovranità monetaria sarà possibile applicare le teorie MMT anche nell'eurozona...cosa che considero assai improbabile visto i venti che tirano a Bruxelles e Francoforte...quindi per questo penso che noi europei dovremmo muoverci in modo diverso dagli americani, costruendo dal basso strumenti di sovranità monetaria popolare che si oppongano a quelli di sudditanza monetaria imposti dalla BCE e dall'UE perchè purtroppo dall'alto non possiamo sperare nulla di buono...ma tu ce lo vedi a Mario Draghi che si sveglia una mattina di buon umore chiama Mario Monti e gli dice: "Mario, sai cosa ti dico, oggi mi sento generoso e voglio aprirti un conto corrente qui alla BCE, in modo che lo stato italiano possa iniziare a spendere a deficit, con la sua moneta sovrana, come è giusto che faccia...". Non lo faranno mai! Quindi noi europei dobbiamo assolutamente agire per altre vie...in Sardegna lo stanno già facendo e lo descriverò nel prossimo articolo...

    A presto

    Piero

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  4. "debito pubblico e inflazione non sono mai stati un vero problema per uno stato che ha una piena sovranità monetaria ed economica", l'inflazione non è un problema per uno stato, dato che questo è debitore, ma per i "poveri" cittadini creditori è invece un grosso problema.

    Stefano

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  5. Confermo quello che ho scritto. Quando uno stato ha la sua moneta sovrana e una sua banca centrale di emissione può far fronte al debito pubblico in qualsiasi momento senza chiedere più tasse ai cittadini, perchè detto in termini molto semplificati può pigiare i tasti di un computer, creare moneta dal nulla e pagare tutti i debiti che vuole (vedi Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna). La scelta è soltanto di carattere politico ed economico, perchè in questo modo inflazionerebbe il mercato della sua moneta e potrebbe andare incontro alla svalutazione. Per un maggiore chiarimento della questione ti consiglio di leggere il libro del giornalista Paolo Barnard "Il più grande crimine" (http://paolobarnard.info/docs/ilpiugrandecrimine2011.pdf), che spiega gli aspetti tecnici di questo apparente paradosso in modo molto semplice e comprensibile. Saluti. Piero

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  6. Conosco le teorie di Barnard per sommi capi, leggerò anche il libro. Il problema qui è legato però al fatto che l'emergere dell'inflazione in uno stato è causa di squilibri di per sé e quindi va sempre evitata o tenuta sotto stretto controllo. Chi in Italia contrasse debiti prima dell'emergere dell'inflazione alta fu da questa estremamente favorito, chi lo fece dopo fu sostanzialmente svantaggiato. Com'è possibile che in uno stesso stato una famiglia possa ripagare i propri debiti per l'acquisto di una casa in breve tempo, mentre un'altra deve contrarre debiti di più lunga durata per la sola ed unica ragione di aver comprato casa dopo (pochi) anni? Questo genera solo squilibri e lo stato non deve ricorrere mai per questi motivi all'inflazione per ripianare i propri debiti. L'inflazione agisce solo in maniera casuale e senza alcuna logica prestabilita. I debiti vanno diminuiti solo facendo ricorso alle tasse, che invece posso essere guidate in modo esatto a seguire un arbitrario predeterminato principio (difesa dei ceti deboli, della famiglia, piuttosto che delle imprese o qualsiasi altro).

    Per il resto interessanti discussioni e ottimo blog
    Stefano

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  7. Stefano, sul problema dell'inflazione siamo sulla stessa lunghezza d'onda. Anche io penso che crei squilibri, avvantaggi troppo le posizioni debitorie e i suoi effetti vadano limitati quanto possibile. Tuttavia uno stato con moneta sovrana ha la possibilità di combatterla con un'adeguata politica fiscale (spesa pubblica e tassazione), noi che non abbiamo più una moneta sovrana possiamo soltanto subirla o agire esclusivamente sul versante di una maggiore tassazione (che però, come stiamo sperimentando noi e hanno già provato i greci, crea recessione e quindi fa entrare l'inflazione dalla porta secondaria, perchè si riduce l'offerta di beni e servizi e si crea la cosiddetta stagflazione, recessione+inflazione). I debiti vanno giustamente ridotti quando sono stati contratti in modo irresponsabile e improduttivo, ma uno stato veramente sovrano dovrebbe avere anche la possibilità di spendere per rilanciare la sua economia, perchè se no si crea un avvitamento fra inflazione e recessione che non porta da nessuna parte. L'Europa da questo punto di vista è un esperimento mai provato prima nella storia, perchè priva gli stati di utilizzare una politica fiscale a 360 gradi e praticamente limita la spesa pubblica soltanto alla spesa corrente, cosa che visti i recenti risultati non sta funzionando molto bene...io non sono un nazionalista, ma mi piacerebbe vivere in un'Europa capace di competere con gli altri paesi alla pari e con una vera banca centrale, che dia sostegno agli stati quando serve e non solo alle banche. La spesa pubblica è stata utilizzata in Italia in modo scellerato, ma questo non significa che sia un male in sè, anzi. A presto. Piero

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  8. Ciao Piero Valerio,

    ti segnalo il seguente link: http://www.rivaluta.it/tabellatus.htm

    Il Tasso di riferimento in ITALIA e in EUROPA.

    In quel sito si vede un elonquentissimo grafico dove c'è la curva rossa dell'andamento del TUS(tasso ufficiale di sconto) dal 1958 al 2011, e la curva verde dell'andamento dell'infalzione.
    Ebbene proprio dal 1981(divorzio Tesoro-Bankitalia), fino al 2002 si è avuto che il TUS è stato sempre più alto dell'inflazione!!! Sempre!!!! Più alto non di poco, ma di moltissimo!!!
    Ed infatti l'area del grafico compresa tra la curva rossa e quella verde, rappresenta un costo esorbitante che lo Stato italiano, ha dovuto affrontare, per questa folle politica monetaria della Banca d'Italia, con Tassi sempre più alti dell'inflazione!!! Tassi a livelli astronomici!!!!!
    Quell'area del grafico(tra la curva rossa e la curva verde), penso che possa ben rapprentare l'aumento esorbitante e repentino in un solo decennio del debito pubblico italiano, a partire appunto dal 1981!!!!
    Pensa Piero, che addirittura la differenza tra il TUS e l'inflazione in quel periodo ha raggiunto un massimo di 10,2% nel 1992 ai danni dello Stato italiano!!! Negli altri anni vi era comunque una differenza del 7-8% sempre ai danni dello Stato, e quindi conseguente aumento velocissimo del debito pubblico.
    Nella tabella sotto al grafico, trovi tutti i dati espressi in numeri a partire dal 1958 fino al 2011.
    Penso che questo grafico e tabella del link indicato, possa dare dei ragguagli ulteriori, sull'aumento misterioso e a velocità esplosiva, del debito pubblico italiano a partire dal 1981.

    Cordiali saluti, Nicola.

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    1. Ottimo spunto, Nicola!
      Questo grafico esemplifica meglio di qualunque altra parola quello che è avvenuto in quegli anni in Italia...con il pretesto di combattere l'inflazione hanno innalzato i rendimenti del debito pubblico a livelli mostruosi a favore di chi in quegli anni aveva soldi da investire (quindi banche, ma anche singoli risparmiatori privati) e a danno invece dell'intera collettività...l'innalzamento del TUS era dovuto anche alla scarsa offerta di denaro proveniente dalla banca centrale, che chiudendo i rubinetti dei finanziamenti statali cominciò ad incanalare la ricchezza verso una ristretta casta di privilegiati (il famoso 1%)...ho in mente un prossimo articolo dove riprenderò questo concetto...grazie e a presto. Piero

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  9. Complimenti Piero per la ricostruzione storica del disastro del nostro paese.
    Sono atterrato sul tuo blog per caso e volevo sapere solo se per caso fossi quel Piero che ho conosciuto nel lontano 2006 in un matrimonio di un amico (ormai ex amico ma non per causa mia).
    Ciao Massimiliano Toro
    Se sei tu scrivimi su Massimiliano.toro@gmail.com

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  10. Prestito offre denaro veloce con la loro grave
    Ciao Sig.ra / Sig
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    Ps: non do il mio credito agli africani

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    Contattarci via e-mail: lucasmariolola@gmail.com
    Cordiali saluti..

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    Grazie Contattaci solo via email
      danielapetrucci07@gmail.com

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    Grazie.

    Mr Brent Timmons

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