Ci
avviciniamo alla fine dell’anno (la
fine del mondo a quanto pare è stata scongiurata) ed è arrivato il momento di
fare i bilanci. Il 2012 è stato un
anno pesante da molti punti di vista: sociale, economico, politico, culturale.
L’anno di governo concesso ai tecnici è stato caratterizzato da un inaridimento culturale che ha pochi
precedenti nella storia della nostra Repubblica: questo infausto periodo verrà
infatti ricordato come l’anno dello spread, ovvero l’anno in cui la grande finanza internazionale per tramite del suo portavoce Mario Monti ha fatto il suo ingresso
trionfale sulla scena politica italiana per ribadire il suo ormai trentennale
primato rispetto a tutti gli altri valori che dovrebbero caratterizzare la vita
di questa Repubblica. La coesione sociale innanzitutto, la solidarietà
civile e il lavoro, che mai come in
quest’anno è stato massacrato, umiliato e relegato al ruolo di rincalzo di
interessi privati e spesso stranieri: la disoccupazione
deve essere tollerata per tranquillizzare i mercati sulla nostra intenzione a
tenere bassi i salari, la flessibilità
deve essere aumentata e la contrattazione
sindacale ridotta ai minimi termini per invogliare i mercati ad investire in
Italia, i licenziamenti devono
essere più facili per attirare i capitali dall’estero e il nostro patrimonio aziendale, pubblico e umano
deve essere svenduto agli investitori stranieri per consentire a loro di fare
profitti e a noi di diventare pura merce
di scambio. E difatti mai come in quest’anno gli investitori e gli
speculatori esteri hanno esultato per l’operato di un nostro governo. Ed è
ovvio che da tutte le testate giornalistiche e sedi istituzionali estere si
siano levati cori di giubilo prima e appelli accorati adesso affinché Monti e la sua banda di mercenari
continuino nella loro "rigorosa e sobria" opera di
spoliazione dell’Italia.
Tuttavia
l’evento che più mi ha colpito in questi ultimi giorni è un altro. E’ singolare
infatti che proprio alla conclusione di questo anno terribile per l’Italia uno
dei giullari del regime infame che
da tempo ci tiene sotto scacco, Roberto
Benigni, sia stato chiamato in causa per magnificare i valori contenuti
nella nostra Costituzione; cercando
quasi di nascondere e occultare goffamente con la forza delle suggestioni e
dello slancio emotivo le modalità
criminali in cui la nostra pregevolissima Carta Universale dei Diritti Umani è
stata ormai vilipesa e ridotta a pura carta straccia dagli eurocrati suoi
committenti. Ma di cosa si è trattato? Di
una burla? Di una beffarda provocazione? Di un palese raggiro? Si sa che i
giullari lavorano al servizio dei regnanti di turno (in questo caso il
committente principale è stato re Giorgio
Napolitano), ma c’è sempre un limite alla decenza. Vi sarete sicuramente
accorti che tutto il mellifluo panegirico del giullare di corte pagato a peso
d’oro ruotava intorno ad un imbarazzante
controsenso induttivo: il fondamento della nostra Costituzione è il lavoro,
la gabbia dell’eurozona in cui ci siamo incastrati non permette di attuare
politiche economiche a difesa e tutela del lavoro, quindi la nostra Costituzione non ha più un fondamento,
non serve più a niente, tranne che ad essere sbeffeggiata ed esposta al pubblico
ludibrio dal primo deficiente che viene pagato per farlo. Ma c’è un altro
particolare che rende raccapricciante l’intera messa in scena.
Molti di voi
si saranno accorti dell’enfasi con cui il giullare toscano ha concluso in
bellezza l’intera carrellata con l’articolo
11 della Costituzione, che effettivamente è uno dei più belli e grandiosi
della nostra carta dei diritti e dei doveri: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli
altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente,
in condizioni
di parità con gli
altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che
assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e
favorisce
le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Benigni, da buon camerata piddino, ha dedotto che la
conseguenza immediata di questo articolo sia l’adesione all’Unione Europea e in particolare l’introduzione della moneta unica euro, proponendola come
necessario strumento di pace nel nostro continente. Vi risulta che nel passato
una qualsiasi guerra sia stata fatta a causa di una moneta? Potreste citarmi un
caso che sia uno in cui un re, un imperatore, un dittatore ha mosso guerra ad un
altro paese perché adoperava una moneta diversa dalla sua? Non erano forse le ricchezze reali dei paesi conquistati i veri obiettivi dei belligeranti? Dal
dopoguerra ad oggi avete mai sentito parlare di avvisaglie di guerra fra gli
Stati Uniti e il Canada? Non mi pare. Eppure, secondo il camerata piddino,
avendo queste due nazioni monete diverse, dovrebbero essere sempre ai ferri
corti e sul piede di guerra. Ovviamente non è così, perché fra Stati Uniti e
Canada esiste un preciso “ordinamento”
sovranazionale e commerciale, che prescinde dalle monete che utilizzano i due
paesi. Gli accordi sono basati su regole
puntuali di reciproca convenienza e cooperazione, per facilitare gli scambi
e i commerci, mentre la moneta come si sa è un semplice strumento di contabilità e di pagamento che serve a misurare, regolare e bilanciare le
quantità di merci scambiate. La Moneta da sola non potrà mai sostituirsi ad un
Ordinamento giuridico come quello previsto da una Costituzione, e allo stesso
tempo è altamente immorale ed ingiusto che una Costituzione venga limitata e
depotenziata a causa dell’adozione di una moneta unica.
Lo stesso discorso può essere fatto
nei confronti dei trattati sovranazionali da noi stipulati dell’Unione Europea,
che essendo di carattere mercantile e commerciale, non possono in alcun caso
essere confusi con l’“ordinamento” giuridico di diritti e di doveri che è alla base della vita
democratica di un popolo. Anche se in effetti i trattati europei contengono norme di collaborazione e cooperazione
volte al benessere dei cittadini (come ad esempio la piena occupazione), questi ultimi sono stati però "stranamente" ignorati perché in Europa hanno sempre prevalso gli
atteggiamenti competitivi ed aggressivi dei paesi economicamente più forti
(la Germania innanzitutto). Noi, in
quanto popolo italiano, abbiamo saggiamente o meno, consapevolmente o meno, stipulato
degli accordi commerciali con gli altri paesi europei aderendo all’Unione
Europea, per facilitare certe pratiche burocratiche ed evitare a monte
qualsiasi diatriba o ritorsione di carattere puramente ostruzionistico, protezionistico o
finanziario. Tuttavia la pacifica
convivenza tra i popoli non è né garantita né promossa da questi trattati,
che a volte risultano invece motivo di scontro diplomatico (vedi il brusco
rifiuto del Fiscal Compact della
Gran Bretagna), ma dalle rispettive Costituzioni che bene o male ripudiano tutte abbastanza esplicitamente le guerre di aggressione. Nel caso specifico
della moneta unica, avendo quest’ultima creato squilibri esterni commerciali tra i paesi che ne hanno accettato
l’adozione, abbiamo verificato nei mesi precedenti in quale maniera profonda
l’euro abbia messo a repentaglio la corretta
applicazione delle stesse disposizioni previste nei trattati dell’Unione
Europea (non a caso è stato necessario stipulare in fretta e furia nuovi
accordi intergovernativi come il Fiscal Compact o il MES, Meccanismo Europeo di Stabilità, per evitare il collasso e la frantumazione dell’intera eurozona) e
quindi già solo per questo motivo la moneta unica andrebbe rimossa, per rilanciare un nuovo programma di migliore collaborazione
e cooperazione tra i popoli. Ma è davvero questo l’obiettivo di tutti o
alcuni paesi membri? E considerando che la moneta unica ha inficiato gravemente
“le
condizioni di parità” richieste dalla nostra Costituzione per
ratificare continue cessioni di sovranità, non sarebbe già solo questo un
motivo sufficiente per dichiararla definitivamente illegittima?
Scambiare l’importanza strategica ed
esistenziale di un “ordinamento” giuridico costituzionale, che abbia come
fondamento i diritti inalienabili
dell’uomo e come presupposto la pace
con gli altri popoli, con una moneta equivale a mercificare il diritto e a
renderlo subalterno a ciò che accade a livello puramente contabile tra i paesi
(surplus, deficit, debiti, crediti, bilancia dei pagamenti). Una moneta non può mai sostituirsi ad un
qualsiasi principio costituzionale
fondamentale, perché la prima è un semplice strumento di contabilità provvisorio che non ha alcuna caratteristica di universalità e
immutabilità, mentre il secondo tende a configurarsi come un valore universale e permanente nel tempo:
confondere le due cose è come dire che una moneta può in certi casi essere più
sovrana di un popolo, della dignità di un uomo e dell’ordinamento istituzionale
di uno stato democratico. E ricordiamo che stiamo sempre parlando di una
semplice unità di conto, una convenzione, un mezzo di misura: ovvero sarebbe
come dire che pur di mantenere il metro o il chilo come unità di misura in due paesi
diversi, i rispettivi governanti potrebbero essere un giorno disposti a far
morire di fame i loro concittadini. Avete
mai sentito parlare di un’assurdità simile? Questo è un errore di
leggerezza colossale che solo un camerata piddino, sulla scia della sua innata
emotività, superficialità ed inclinazione al sogno, essendo stato indotto da
anni a credere che l’Unione Europea sia soltanto una moneta, può fare con tanta
disinvoltura. Una persona mediamente più accorta ad interpretare gli eventi, più
capace a leggere tra le righe e più abituata a mettere insieme dei semplici
numeri, avrà sicuramente capito che dietro la retorica della moneta unica come strumento di pace si nascondono invece
dei precisi interessi di casta e di
corporazione dei grandi gruppi finanziari e multinazionali che avevano
necessità di scaricare tutti i costi di aggiustamento degli squilibri esterni
tra paesi sui salari dei lavoratori
e di fare transitare enormi quantità di capitali e merci attraverso le
frontiere senza incorrere nel rischio di
cambio.
Grazie alla compiacenza dei nostri governanti asserviti e funzionali a questi
interessi (vedi il video sotto, magistralmente montato dai ragazzi dell’ARS, Associazione Riconquistare la Sovranità, per capire su quali leve
puramente psicologiche e demagogiche puntasse da sempre la retorica degli
eurocrati) e alla complicità dei
camerati piddini, che spesso ingenuamente e altre volte opportunisticamente
hanno avvalorato queste logiche contrarie alla loro stessa presunta etica della
solidarietà universale, il pastrocchio è
stato compiuto e viene continuamente ingigantito. Purtroppo i camerati
piddini, come i membri di un qualsiasi gruppo
totalitario e chiuso basato sulla fede e il riconoscimento reciproco,
mettono in subordine qualsiasi timido approccio critico o tentativo di
ragionamento razionale rispetto alle dinamiche
di appartenenza al gruppo, alle ragioni della fede, all’assolutezza categorica dei
giudizi: “io sono un piddino di
sinistra, io sono un uomo giusto, solidale e sognatore, quindi il PD è un
partito di sinistra formato da uomini giusti, solidali e sognatori come me”.
E ovviamente, sulla base di questo fraintendimento e obnubilamento fideistico, qualsiasi
iniziativa portata avanti dal PD, compresa l’accettazione
passiva e incondizionata di una moneta unica (come abbiamo detto sopra, imposta
dall’alto per motivi tutt’altro che etici e pacifici ma puramente pratici e
commerciali, come qualsiasi non piddino ha imparato a capire), è una scelta di
sinistra e come tale va abbracciata e sospinta ciecamente con tutta la passione
e la forza d’urto necessaria. Anzi, la difesa ad oltranza dell’euro, a dispetto
di tutte le evidenze empiriche contrarie e dei dubbi legittimi che dovrebbero
attanagliare la coscienza di qualsiasi uomo ragionevole, diventa una dimostrazione ulteriore della propria fede
incrollabile al gruppo e al partito di appartenenza. Sappiamo bene che
sfruttando questo stesso schema mentale
di fanatismo e bigottismo, in passato sono state giustificate le peggiori
atrocità della storia dell’uomo, sempre in nome di qualcosa che è superiore ed
esterno alla coscienza individuale del singolo uomo e alla sua razionalità: “In nome di Dio, in nome del Re, in nome
della Patria, in nome della Legge, in nome del Partito, in nome della Moneta,
in nome degli Stati Uniti d’Europa!”. Quando l’illusione prende il posto
della ragione e diventa l’unico fattore discriminante delle proprie scelte,
l’intera impalcatura giuridica e morale di un’organizzazione è sempre sul punto
di collassare, perché se l’illusione non viene utilizzata per rafforzare la
ragione ma cerca ostinatamente di sostituirla, allora la nostra stessa coscienza
critica e capacità di scelta viene di fatto amputata. E come sappiamo, il sonno della ragione genera “mostri”.
E l’esibizione del giullare piddino
di lunedì scorso è stata una prova esemplare di quali danni irreparabili ed errori di valutazione si possano commettere quando
si antepongono le ragioni sterili dell’appartenenza e le inflessioni oniriche
delle proprie illusioni alle considerazioni squisitamente razionali e
universalmente accettate che si basano soltanto sui diritti umani inalienabili.
Ma non dobbiamo stupirci di questo, perché in qualsiasi epoca o periodo storico,
l’illusione è stata sempre utilizzata in
modo strumentale da chi conosce bene i suoi effetti, per stravolgere le
reali motivazioni che dovrebbero indurre gli uomini a fare una scelta piuttosto
che un’altra. Qualsiasi dittatore o aspirante tale ha sempre dispensato a piene
mani promesse illusorie come arma di distrazione di massa per mantenere il
consenso e consolidare il suo prestigio. Avete
mai sentito parlare di un despota che davanti al popolo non annuncia in pompa
magna sogni di gloria, ricchezza o felicità eterna? Non era il tanto odiato
fascista Mussolini a vendere ai suoi fedeli seguaci l’idea di un’Italia potente
e imperialista? Non era il tanto vituperato Berlusconi, indicato come l’ultimo
dei caimani, a promettere ai suoi ingenui accoliti posti di lavoro, lussi, vita
da nababbi? E perché non dovrebbero farlo oggi banchieri e corporations,
tramite i loro politicanti di servizio o giullari di corte, prospettando ai soliti
allocchi di turno la felicità eterna degli Stati Uniti d’Europa? Funziona come
strategia comunicativa, ha sempre funzionato e sempre funzionerà.
Chi ha visto
lo spettacolo di Benigni, avrà sicuramente intuito che qualcuno, seduto insieme
a lui, aveva già deciso a tavolino che il punto più alto di tutta la sua
rappresentazione scenica doveva essere raggiunto proprio in concomitanza della lettura dell’articolo 11 della Costituzione, quando il giullare doveva sforzarsi di far capire ai
sudditi che gli stessi gloriosi Padri Costituenti avevano scritto i precedenti
10 articoli affinché qualcuno un giorno avesse potuto sintetizzarli in un “ordinamento” giuridico più grande,
continentale, mondiale, realizzando in pratica lo stesso sogno di John Lennon
in Imagine: gli uomini saranno tutti uguali, bianchi, neri, gialli, senza più
bandiere, confini, religioni. Monete diverse. E la conclusione discutibile di
tutta questa sceneggiata era che la migliore strada per raggiungere questo futuro di prosperità, pace e progresso
è quella di cominciare ad adottare una moneta unica, perché da ciò discenderà a
cascata tutto il resto. Non esistono altre strade alternative percorribili, perché gli
uomini sono troppo lascivi e riluttanti per accettare un normale processo di riforme democratiche. Bisogna costringerli,
sferzarli, vessarli, spronarli con un vincolo
esterno non più removibile, perché le crisi
economiche spaventose, le cruenti
tensioni sociali, gli scatti
violenti imposti dai mercati finanziari, le accelerazioni furibonde verso una maggiore depredazione dei risparmi e
dei patrimoni dei cittadini, sono il sacrificio necessario da rendere in
questo “periodo transitorio di emergenza” per raggiungere quel mondo di
pace, stabilità ed equità sociale che solo l’uomo illuso può essere capace di
vedere e immaginare. Avendo ormai soppiantato e mortificato la ragione, la semplice e immediata associazione fra
moneta unica e diritti unici, uguaglianza con i propri simili, giustizia,
libertà, pace è il massimo passaggio
logico e conseguenziale che l’uomo illuso può concepire. E conoscendo bene
questa deficienza di fondo che
affligge gran parte degli spettatori, il giullare di corte ha avuto gioco
facile a forzare la mano su questo aspetto. Spiegare invece che la moneta unica amplifica ed irrigidisce gli
squilibri e non corrisponde affatto ad un impianto giuridico e
costituzionale unico, a condizioni salariali, sindacali e assistenziali simili,
a sistemi previdenziali unici ed omogenei, a strutture scolastiche e formative
garantite, a regimi fiscali congruenti e coordinati, a un governo unico
democraticamente eletto è troppo complicato per chi è chiamato a vendere
illusioni e per chi ormai vive soltanto di sogni, ignorando i fatti e i dati
della realtà circostante.
Riuscire a
verificare i dati e i fatti che dimostrano inequivocabilmente come una moneta unica abbia causato squilibri e “disparità” immense tra gli stati europei,
dividendoli tra buoni e cattivi, virtuosi e viziosi, esportatori ed
importatori, creditori e debitori, oppressi ed oppressori, è un impegno troppo
gravoso per la mente sognante del camerata piddino. Ed è ancora più difficile
per lui comprendere che un tale fenomeno non rappresenta l’effetto di un caso accidentale o congiunturale, ma una
conclamata evidenza empirica, che
conferma dati alla mano come storicamente tutti i paesi che hanno adottato un
aggancio rigido ad una moneta più forte, senza avere le caratteristiche di un’area valutaria ottimale (mobilità
dei fattori produttivi capitale e lavoro, convergenza dell’inflazione,
armonizzazione fiscale, economica, linguistica e culturale) insieme al paese
economicamente più forte, sono state costrette a rompere l’aggancio rigido
perché strangolate dai debiti esteri denominati in una moneta di cui non
avevano mai avuto alcun controllo. Quindi al contrario di ciò che pensa il
camerata piddino, l’euro non è uno
strumento di pacificazione internazionale ammissibile a termine di legge,
ma un errore “voluto” di contabilità che ha avvantaggiato le oligarchie transnazionali
a danno dei lavoratori e dei cittadini contribuenti sia dei paesi che sono stati
inesorabilmente costretti ad indebitarsi sia di quelli che vivono soltanto di
esportazioni. Continuare dunque ad affamare
e impoverire un’intera nazione con tasse, imposte, gabelle, tagli ai
diritti e allo stato sociale, pur di rimborsare gli enti creditori privati
(francesi e tedeschi soprattutto) che hanno speculato sull’esistenza di una
moneta unica, è un’offesa nei confronti
di chi ha combattuto in passato e di chi ancora oggi crede nella Democrazia,
quale unica e perfettibile forma di organizzazione delle risorse e della
convivenza civile. E cosa ancora peggiore, non avendo garantito le “condizioni
di parità” tra i paesi e non presupponendo alle sue spalle un “ordinamento”
istituzionale democratico che espanda ed includa quello dei singoli paesi
membri (ricordiamo che tutti i tentativi di far passare per via referendaria e
democratica i trattati mercantili europei come vere e proprie Carte
Costituzionali sono falliti miseramente), l’euro
è uno strumento contabile di pagamento giuridicamente incostituzionale. La
favola che la moneta unica venga prima degli stati e dei diritti
costituzionalmente garantiti dei cittadini non è soltanto una favola, ma un crimine a tutti gli effetti.
Ma siccome
il camerata piddino non solo è innamorato delle favole, ma ha il brutto vizio
di prendere lezioni di economia e di
diritto costituzionale da un comico, da un giullare, da un buffone di corte,
mentre quando ha voglia di ridere e di svagarsi si reca ai comizi del
segretario di partito, per sentire un po’ di storielle sulle pettinature delle
bambole e sulle macchie dei giaguari, ecco che ci troviamo tutti in mezzo al
guado e incastrati in questo impazzito
teatrino dell’assurdo, dove coloro che credono per tradizione e abitudine
di avere il primato della moralità, della cultura, della laicità, dell’antifascismo,
dell’antinazionalismo, dell’internazionalismo sono diventati in realtà i più beceri, fanatici, ignoranti,
reazionari e fascisti avversari che la Repubblica democratica abbia mai
avuto nei suoi sessantasei anni di storia. Arrogandosi peraltro il merito di
essere i promotori della modernità
in virtù della difesa di una moneta unica che è quanto di più retrogrado e
anacronistico possa esistere sulla faccia della terra: chi ha un minimo di
conoscenze delle teorie monetarie, sa infatti che un’idea veramente moderna
potrebbe essere quella di utilizzare davvero una moneta unica mondiale come unità di conto internazionale, ma
mantenendo ben salde le monete nazionali
che sono invece indispensabili strumenti per attuare politiche economiche e fiscali attive, efficaci, sostenibili e
soprattutto necessarie per garantire i diritti universali di ogni singolo
popolo e i principi fondamentali sanciti dalle carte costituzionali
democratiche. Ecco per quale motivo chi vuole contrastare il degrado culturale
e diventare un partigiano della Nuova
Resistenza deve avere un atteggiamento opposto e speculare rispetto a
quello del camerata piddino: prendere con umiltà lezioni di economia dagli
economisti per capire come stanno realmente le cose, interpellare i veri
giuristi sulle questioni di diritto, assistere allo spettacolo di un comico
quando ha voglia di ridere e di svagarsi. E’ una strada che comporta
sicuramente più fatica e impegno (oltre ovviamente a maggiore coerenza!), ma solo
così possiamo sperare di uscire sani e salvi dai pantani.
Ad ogni modo
la patetica esibizione del giullare piddino Benigni mi è servita come spunto
per chiudere in positivo il bilancio di un anno di Tempesta Perfetta, in cui
spero di avere fornito un utile contributo per la comprensione dei dati, dei
fatti e degli eventi che stanno accadendo oggi in Europa. Il mio modo di
interpretare i problemi economici è ormai abbastanza chiaro: non essendo una scienza perfetta e deterministica, non
possiamo utilizzare in economia vincoli numerici
e quantitativi (moneta unica, limite del 60% del rapporto debito
pubblico/PIL, 3% di rapporto deficit/PIL, pareggio di bilancio strutturale, spread)
come obiettivi principali per indirizzare la politica di un intero sistema
paese. Visto che non avremo mai la certezza matematica che quegli obiettivi
siano ben posti e garantiscano il raggiungimento di una qualsiasi forma di
benessere e giustizia sociale (manca il nesso
di causalità, il collegamento di
causa-effetto tipico delle scienze pure), è assurdo ed immorale continuare
a far credere alla gente che il loro futuro sia appeso a dei semplici numeri,
perché non è mai stato così e mai lo sarà nella storia dell’uomo: i
numeri possono essere utili per misurare e quantificare le prestazioni di una
certa economia, ma non per determinarne le linee guida e i futuri sviluppi,
perché da questi ultimi dipendono i valori fondanti di una comunità, quali la
dignità umana e la vita sociale degli individui, che sono le vere premesse, le
ipotesi, da cui deve prendere le mosse qualsiasi “teorema” di carattere socio-economico.
Al contrario dunque di ciò che siamo spesso indotti a credere, una politica
economica davvero sostenibile e al servizio della comunità, dovrebbe
innanzitutto fissare gli obiettivi
sociali da raggiungere (piena occupazione, livello di redistribuzione dei
redditi, stato sociale e assistenziale, trattamenti salariali minimi e garantiti)
e in secondo luogo utilizzare tutti gli strumenti a disposizione (fiscali o
monetari) affinché questi obiettivi vengano raggiunti senza creare squilibri
nei conti interni o con l’estero, verificando costantemente i dati preventivi,
consuntivi e intermedi mediante i modelli matematici e le proiezioni
statistiche che tanto ci fanno penare (PIL, deficit pubblici o esteri,
inflazione, tasso di disoccupazione) e definendo in base a questi dati e
risultati le migliori azioni correttive
da intraprendere.
L’economia quindi è una disciplina sociale, al pari
della politica, del diritto, dell’etica e a dispetto della barbarie culturale
circostante, come tale dovremo in futuro abituarci a considerarla e a
trattarla. Con questo auspicio mi congedo temporaneamente dal blog Tempesta
Perfetta e auguro a tutti i lettori un sincero Buon Natale e un Felice Anno
Nuovo, visto che a causa di un importante progetto per me ormai
improrogabile dovrò assentarmi per qualche mese da queste pagine (anche se
negli spezzoni di tempo libero, cercherò di aggiornare di tanto in tanto il
blog con nuovi articoli). Ne approfitto per ringraziare tutti coloro che
durante questo lungo anno sono intervenuti con i loro commenti, suggerimenti,
incoraggiamenti e spero che altri nuovi bloggers possano continuare a portare avanti la fondamentale
battaglia per una corretta e trasparente informazione, perché dalla qualità
delle informazioni fornite ai cittadini dipende la forza e la solidità di una
democrazia. Se oggi anche Berlusconi si permette di denunciare in prima serata
senza troppe reticenze le assurdità dell’euro e i crimini dell’eurozona, si
vede che ormai la massa critica è pronta per assorbire il passaggio ad una gestione più “normale”, “razionale”, “giusta”, “equa”, “sociale”
dell’economia, che con o senza Berlusconi, fra non molto dovremo farci
carico di affrontare individualmente e collettivamente in Italia. Tuttavia in
Italia rimane ancora lo scoglio invalicabile dei camerati piddini, che non
hanno purtroppo la capacità di capire che il loro presunto “voto
di sinistra” è stato da anni impacchettato come dono regalo per le logiche predatorie europeiste e nei
prossimi mesi diventerà l’indispensabile
zoccolo duro “democratico” per la
nascita del nuovo governo Monti. La democrazia deve essere accettata nel bene e
nel male, anche quando è ampiamente disfunzionale e sbilanciata, e non appena avvertiamo la presenza di queste anomalie è un dovere civico fornire il nostro contributo per rimarginare gli squilibri informativi che
rendono attualmente la democrazia una forma di governo impraticabile e vuota. A
tal proposito vi lascio con l’articolo dell’amico Luciano del blog Orizzonte48 (pubblicato anche sul libro
“Il Tramonto dell’Euro” dell’economista Alberto Bagnai), che secondo me sintetizza in maniera formidabile tutto
quello che ci siamo detti in questo anno: economia
e diritto vanno di pari passo, e da un’efficace sinergia fra queste due
discipline sociali, dipende la reale prospettiva di una buona Politica per la gente e per la nazione. Un sincero e caloroso
abbraccio a tutti. Piero Valerio.
“Che c'è infatti di più sciocco, dicono, di un
candidato che lusinga il popolo in tono supplichevole, che compra i voti, che
va in cerca degli applausi di tanti stolti, che si compiace delle acclamazioni,
che si fa portare in giro in trionfo, come una statua da mostrare al popolo,
che fa collocare nel foro il proprio simulacro di bronzo? Aggiungi la sfilza
dei nomi e dei soprannomi, gli onori divini tributati a un uomo insignificante,
il fatto che si dà il caso di tiranni scelleratissimi elevati con pubbliche
cerimonie alla gloria dell'Olimpo. Sono autentiche manifestazioni di follia, e
per riderci sopra non basterebbe un solo Democrito. Questa follia genera le
città; su di essa poggiano i governi, le magistrature, la religione, le
assemblee, i tribunali. La vita umana non è altro che un gioco della Follia.” (Erasmo da Rotterdam, "Elogio della
Follia", 1508 d.c.)
AREA EURO, MERCANTILISMO E VIOLAZIONI DEL TRATTATO
Sommario: 1- LA GERMANIA E LA CRISI DELL’EURO; 2- IL
DISEGNO COMPLESSIVO INSITO NELL’EURO; 3- EURO E VIOLAZIONE DELLE NORME DEI
TRATTATI, ISTITITUVO E SUL FUNZIONAMENTO DELL’UE, DA PARTE DI GERMANIA E
ISTITUZIONI UE; 4- QUESTIONE DI DIRITTO RELATIVA ALL’EURO-EXIT
1- LA
GERMANIA E LA CRISI DELL’EURO
Le polemiche
che, in varie forme, si protraggono da mesi, circa l’attivazione di meccanismi finanziari di intervento
sugli spread tra i titoli del debito
pubblico dei diversi paesi euro, in specie sulla conformità alla Costituzione
tedesca dell’European Stability Mechanism
(c.d. ESM), evidenziano i limiti “genetici”
del trattato UEM (oggi trasposto, in
un’inestricabile commistione di tematiche e oggetti “promiscui” all’area euro in senso proprio e a quella UE allargata,
nel c.d. Trattato sul funzionamento
dell’unione europea –ora c.d. TFUE -, che costituisce la versione
consolidata, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, del “vecchio” Trattato istitutivo della Comunità europea –c.d. TCE).
Lo scontro politico-economico fra paesi
UE, drammaticamente sottostante a tali polemiche, dimostra l’ambiguità
normativa sul ruolo della BCE,
perseguita, a scopi ideologici, con la formulazione del trattato, alla luce
della più accreditata teoria economica della moneta. Una banca centrale,
diversamente da quanto implicato dalla disciplina “contraddittoria” che oggi si dice di “voler forzare”,- non solo l’art.123, ma il complesso degli
artt.120-128 TFUE-, deve poter funzionare come Lender of Last Restort (LOLR),: e ciò sia, a rigore della locuzione, rispetto al sistema
bancario che utilizza quella divisa in via principale, cioè comunque “residente” in quell’area valutaria, sia
nella funzione, attualmente più controversa, di “tesoriere del governo” o,
comunque, del centro di imputazione della politica
fiscale ed economica della medesima area valutaria (per le importanti note
incluse in questo articolo riferirsi direttamente al blog Orizzonte48).
Ciò perché, altrimenti,
la moneta che stampa tale banca centrale va “fuori controllo”: cioè, quantomeno, i tassi del debito pubblico, se emesso indipendentemente dai vari
paesi aderenti, da qualche parte e inevitabilmente -cioè è certo- saliranno in
modo rilevante e ineguale, divergendo tra loro e mettendo in crisi la
sostenibilità della moneta stessa, come strumento
fiduciario di pagamento all’interno dell’area (c.d. moneta “fiat”, uno strumento di
pagamento non coperto da riserve di altri materiali, ad esempio: riserve auree, e
quindi privo di valore intrinseco anche indiretto). Questo assunto,
connesso alla parallela istituzione di un’autorità
“federale” capace di operare
trasferimenti fiscali a favore delle aree in squilibrio commerciale (e di
liquidità), fa parte della teoria base delle “aree valutarie ottimali”,
la cui formulazione, nel 1961, ha fruttato all’economista statunitense Robert Mundell il Nobel per
l’economia). Poi, va subito precisato, non è affatto vero che un intervento
della BCE avrebbe potenziali maggiori costi per i tedeschi (fermo il fatto
giuridico-economico che, comunque, tale intervento, in forma di emissione di
moneta per acquisti di titoli, non grava direttamente sul bilancio federale).
Il timore
invocato dai tedeschi è quello dell'inflazione,
che farebbe salire anche i tassi nominali del debito tedesco, svalutando il valore di bilancio (specialmente
bancario, secondo il controverso criterio c.d. mark to market imposto dall’EBA a fine 2011), dei corsi dei bund
emessi in precedenza.
Ma
l'inflazione, in relazione alle dimensioni dell’intervento BCE oggi immaginato,
non salirebbe oltre i limiti della tollerabilità: è stato infatti calcolato che
il "Non Inflationary Loss Absorbing
Capacity-NILAC" della BCE è attualmente di oltre 3300 miliardi di
euro. E’ infatti, evidente, che il solo fatto che una banca centrale assicuri
acquisti illimitati nell’ammontare e nel tempo, determina la rinuncia alla speculazione
sui titoli “protetti” e, anzi,
permette alla banca centrale stessa di “fermarsi”
a un volume di interventi nei fatti limitato, realizzando anche plusvalenze
sugli acquisti dei titoli emessi con rendimenti precedenti più alti.
Solo oltre
la soglia del NILAC si avrebbero effetti inflattivi, mentre la
trasmissione dell'incremento monetario all'inflazione stessa sarebbe,
nell’attuale situazione di “raffreddamento” della domanda in
tutta l’area, molto basso e lento ad agire. Praticamente effetti inflattivi di
una certa “rilevanza”, seguendo le
opportune misure tecniche, si avrebbero per il doppio dell’evidenziato
ammontare del NILAC (cioè oltre quota
6000 miliardi di euro di emissione di nuova moneta per la funzione specifica
qui commentata).
In sostanza,
col LOLR si produrrebbe un certo
impatto sui tassi dei bund, e quindi
sulle “tasche” dei tedeschi, minore di quello causato dal rapido “bruciarsi” dei fondi impiegati negli
interventi via EFSF e ESM, che si prospettano, nella pratica, quasi inutili.
“Inutili” in quanto qualsiasi garanzia
"limitata" nell'ammontare
non è attendibile agli occhi dei mercati, sortendo l'atteso effetto contrario di affrettare le vendite
del titolo il cui valore (riflesso nei rendimenti) si vorrebbe proteggere: ciò
nel timore degli operatori, detentori dei titoli, di arrivare tardi rispetto
all'esaurimento del fondo limitato...che, appunto, esaurirebbe il suo plafond molto prima che in una
situazione in cui lo stesso esborso monetario per acquisti fosse effettuato da
una banca centrale che agisca come LOLR,
costando perciò molto di più, e senza
risolvere comunque gli squilibri alla base delle divergenze dei tassi, ai
contribuenti tedeschi.
In effetti,
la gente "comune" in Germania soffre di effetti restrittivi della domanda interna e, prima di tutto, delle dinamiche salariali, ma essi non sono
certo dovuti alla dimensione del debito e della spesa pubblica negli altri
paesi dell’area UEM, sebbene alle politiche adottate dai propri governi,
originate dall’obiettivo di dover sfruttare, come programmato alla luce delle
note dinamiche della aree valutarie teorizzate da Mundell, la valuta unica. E
come tale occasione…"unica"
doveva essere sfruttata?
Mediante una
politica economica che viene
definita "imperialismo mercantilista", in quanto tende alla
universalizzazione, in una certa area -tendenzialmente l'Europa, data appunto
la presenza della moneta unica-, della propria supremazia commerciale, e,
quindi, ad “asservire” alla propria offerta la domanda del "vicino", che, inevitabilmente,
ne risulta impoverito dopo una fase iniziale espansiva "precolonizzazione" economica. E che
le cose stiano esattamente così, in termini di definizione della politica
tedesca all’interno dell’area monetaria, è affermazione degli stessi esponenti tecnici
della governance di quel paese.
Dunque, lo
strumento principale che ha conferito un’efficacia senza precedenti a tale
mercantilismo è proprio la moneta unica
che consente, a differenza del cambio flessibile (che produce, in ragione delle
differenze di inflazione, l'effetto opposto in termini di competitività
commerciale), di sfruttare vantaggiosamente il deliberato perseguimento di un differenziale favorevole di inflazione.
Tale effetto è stato indicato chiaramente da Mundell nella sua teoria delle
aree valutaria ottimali (Optimun Currency
Area, c.d OCA). E la relativa politica tedesca, col termine di "mercantilismo", è registrata come
tale anche dal FMI, dall’ILO, nonchè, tra i numerosi altri, da De Grauwe, forse il più prestigioso economista europeo del momento.
Occorre
infatti considerare che, in un'area valutaria ottimale (OCA), il sistema di deflazione competitiva (svalutazione reale, cioè deprezzamento del c.d. tasso di cambio
reale che permane, ancorato ai diversi rispettivi livelli dei prezzi in ciascun paese, anche in situazione di cambi
nominali fissi) tende a dare un decisivo vantaggio sul lato dell'offerta e
nulla ha a che fare con lo spirito
cooperativo (debolmente) espresso nei trattati UE.
Unitamente a
ciò, il paese che opera tale svalutazione reale, persegue simultaneamente la necessità iniziale di sostenere la domanda
dei paesi resi meno competitivi attraverso il tasso di cambio reale
-simmetricamente rivalutatosi, nel loro caso- erogando crediti funzionali all'acquisto dei propri beni, in modo da rendere
operativo il vantaggio in termini di attivo
della propria bilancia dei pagamenti.
Per
deflazionare, in funzione competitiva, lo strumento unico a disposizione di una
paese appartenente a un'OCA è agire -in via preventiva e non necessitata da
fattori ciclici esterni all’area- sul costo
del lavoro. E a ciò hanno provveduto le riforme Hartz (dal nome del ministro, ed ex a.d. di una fabbrica di
auto, proponente delle leggi che hanno riformato il mercato del lavoro e del welfare relativo): queste riforme hanno
svolto i loro effetti, sia chiaro, partendo comunque da una situazione di preesistente inflazione più bassa, che
corrisponde a una tradizione economico-commerciale propria della Germania,
accompagnata da una costante compressione
della propria domanda interna.
Questo solo
in estrema sintesi, dato che vari altri corollari dimostrano la natura
ideologico-politica, e anticooperativa (piuttosto pan-germanica), di questa
strategia che, ovviamente, può reggere a un sereno vaglio di praticabilità
all’interno di una “unione”,
asseritamente politica, o quantomeno economica, prima che monetaria, solo
fondandosi su luoghi comuni
mediatico-propagandistici sulla propria “virtuosità” nel fare
costanti sacrifici, simmetrici a quelli che vengono proposti agli italiani ed
espressi nella “parola d’ordine” "debito-pubblico-brutto-abbiamo-vissuto-al-di-sopra-dei-nostri-mezzi".
Il metodo
seguito dai tedeschi per abbassare l’inflazione, ben al di sotto del 2% indicato come limite di convergenza “cooperativo”
nel trattato UEM - cioè un limite su cui si dovrebbe esattamente convergere
non solo deflazionando se si è oltre, ma anche “riflazionando” se se ne è al di sotto-, è lecito o non lecito (come
si vedrà più oltre) a seconda della lettura delle clausole dei trattati
congeniale…ai più forti.
E quindi ai
paesi "core", che non si
trovano mai in minoranza nel "consiglio"
UE, sebbene il meccanismo, -amplificato nei suoi effetti deflazionistici dal
c.d. fiscal compact, fino a innescare
un trend recessivo esteso a tutta
l’area-, cominci a essere “denunziato”
nelle trattative sotterranee che i francesi in
primis tenderanno a intraprendere, per correggere gli squilibri commerciali
senza dover inseguire una politica deflazionistica a costi sociali crescenti,
assistendo cioè al dilagare di una disoccupazione
non tollerabile e non necessaria in una razionale politica di crescita.
2- IL
DISEGNO COMPLESSIVO INSITO NELL’EURO.
La
questione, una volta subentrata la pesante
crisi da squilibri commerciali attuale, viene spesso posta in termini di
recupero della competitività mediante aumento
della produttività. Ma tale controversa impostazione non può nascondere le
evidenze scientifiche che comprovano che la competitività e la bassa
inflazione dipendono essenzialmente
dal Costo del Lavoro per Unità
Produttiva (CLUP) e quindi ogni
politica di correzione, finisce in ultima analisi per perseguire la contrazione del costo del lavoro
(variazioni comparate dei salari reali) e la caduta della domanda interna.
Nè si può,
poi, seriamente dimostrare, in situazione
recessiva e con diminuzione di
consumi e, specialmente, di investimenti,
che si possa ottenere un aumento della produttività "non a causa di stipendi in diminuzione", uscendo tale assunto
da ogni verosimiglianza scientifica; a ciò segue la inattendibilità della
concomitante ipotesi, contraria a ogni evidenza, di considerare, o quantomeno
di “dichiarare”, la recessione indotta da austerity fiscale come l'ambiente
ideale per effettuare immaginifici “massicci” investimenti in Innovazione,
Ricerca&Sviluppo, facendogli avere effetto in 1 o 2 anni (!), laddove,
invece, si registrano insolvenza diffusa e caduta verticale di risparmi e
investimenti.
Ma anche a
voler adottare ora la stessa strategia della Germania, i problemi sono
difficilmente superabili: la diminuzione dei salari reali, comunque, potrebbe
portare al "recupero" di
competitività su altri paesi (che utilizzino la stessa moneta…se no ci
pensavano molto meglio le variazioni naturali dei cambi nominali) solo se non
perseguita, come ora si vuole nei PIGS, in direzione
pro-ciclica, allorchè la inevitabile caduta
della domanda aggregata interna, porta a disoccupazione e deindustrializzazione,
nonché all’apertura ulteriore di tali economie al controllo estero delle proprie imprese, più facilmente acquisibile
a vantaggio dei paesi in attivo commerciale.
Questi
ultimi, pur ove, per taluni settori (soltanto, quelli esportatori), riaumentino
i livelli dei salari, hanno goduto e continuano a godere di un vantaggio di
competitività (da tasso di cambio reale), hanno dunque accumulato prolungati attivi della bilancia dei
pagamenti e dispongono, per tale motivo, dei capitali per impadronirsi delle economie indebitate (ancor più
dagli effetti recessivi dell'austerity).
Si può
riscontrare come, ad es;, l'Irlanda
(estero controllata sul piano dei capitali immobilizzati) non può che rischiare
di riprodurre meccanismi shock legati alla dipendenza dai
mercati finanziari esteri, dato che può “punire”
i salari quanto vuole, ma non può raddrizzare strutturalmente il carico dell'indebitamento privato con
l'estero e stabilizzare l'attivo
della bilancia dei pagamenti, se non a costo di una costante ulteriore compressione salariale e della domanda
interna (accompagnato da una sostanziale “istituzionalizzazione” della proprietà
estera di capitali produttivi, con esportazione
dei relativi profitti e interessi sui capitali investiti, incidente, come
pare dimenticare l’attuale dibattito in Italia, sulla voce dei redditi del
saldo- negativo- della partita corrente della bilancia dei pagamenti).
L'assurdità
di questi riallineamenti al ribasso dei CLUP, - operati pro-ciclicamente, quale
regola-guida dell' "austerità espansiva" durante
una crisi da debito, privato (cioè
originato dagli squilibri commerciali e dall’import) e non pubblico-,
viene proposta come una di quelle riforme di "lungo-periodo" che dovrebbero in qualche modo riallineare i
paesi in difficoltà (le cosiddette cicale) verso i virtuosi.
Si omette perciò
di considerare il fatto che le cosiddette “formiche”
(cioè i virtuosi che stanno sotto il target fissato del 2% di inflazione),
hanno preventivamente, e senza alcuna giustificazione se non quella della
competizione commerciale, aggiustato il
tasso di cambio reale via deflazione salariale (-6% in termini reali, per i
salari dei lavoratori tedeschi nell'ultimo decennio), con la segnalata
distorsione del mercato UEM, attraverso "svalutazione competitiva"
volta all’export e alla minor
convenienza dell’importazione dai partners.
Contemporaneamente, il sistema manifatturiero-produttivo tedesco ha fruito di
una fiscalizzazione dei propri costi:
infatti, lo Stato federale, a seguito delle riforme Hartz ha amplificato il
proprio deficit oltre il limite sancito
da Maastricht, nei primi anni di circolazione dell’euro, a causa della spesa pubblica originata dal welfare connesso a disoccupazione e
sotto-occupazione (i c.d minijob).
Si tratta di
un’antica propensione di politica economica intesa all’aggressività verso i
mercati degli altri paesi. Già l'economista italiano Serra nel 1613, prima di
Kaldor (il grande economista vicino a Keynes) ad esempio, riconosceva che l'industria manifatturiera è uno dei motori
della crescita, posto che non dipende dalle condizioni climatiche, produce
beni durevoli, ed è soggetta a rendimenti di scala crescenti in quanto può
essere moltiplicata con minore proporzione di spesa.
I tedeschi
(e gli altri paesi “core”, ex
area-marco) in uno scenario che, almeno fino alla crisi finanziaria mondiale
dei sub-prime, registrava una domanda
dei loro beni, hanno incentivato quest’ultima mediante credito (privato)
largamente concesso dal loro sistema bancario, inoculando la “droga”
dei capitali prestati ai paesi periferici (per permettere a questi ultimi
l'acquisto di auto e beni durevoli ecc.), con l’effetto anche di aumentare il
livello, e il differenziale, di inflazione in tali ultimi paesi, a causa del forzoso aumento della domanda e dei consumi,
amplificando i differenziali di tasso di cambio reale.
Sopraggiunta
la crisi dei sub-prime, di cui la
Germania con la Deutsche Bank è stata protagonista in negativo, il cosiddetto sudden
stop creditizio ha provocato la caduta
della domanda dei paesi periferici, scoperchiando il vaso di pandora dei
loro crescenti debiti privati ed esteri.
Il mantenimento persistente di tassi di inflazione al di sotto della media
europea ha causato la paralisi/morte dei “più
deboli” sistemi produttivi: quindi un maggior CLUP, corrispondente a minor
competitività, per i partner europei
quali Grecia, Portogallo e Spagna, a vantaggio dei tassi di interesse reali
sempre più alti, goduti dai paesi creditori.
Ora si
chiede che tutti, in Europa, si riallineino abbassando i CLUP. Certo, è
teoricamente possibile. Ma si deve sapere che ciò è realizzabile solo creando ampia disoccupazione e connessa recessione. La curva di Phillips ci spiega che la crescita del salario è inversamente
proporzionale rispetto al tasso di disoccupazione: la direzione di tale
politica e dei suoi effetti trova conferma nei tassi di disoccupazione di
Spagna, Grecia, Irlanda, Italia (e, perchè no, della Germania durante i primi
anni di applicazione delle riforme Hartz, quando si è avviata preventivamente
la accelerazione deflattiva).
L’impostazione
rende logico porsi questo interrogativo: se tutti sono parimenti competitivi a
chi si vendono questi beni "equivalenti" nei prezzi (in mera teoria)?
La verità, sempre ipocritamente taciuta, è che in un'OCA”imperfetta” per
ammissione dei suoi stessi creatori, quale indubbiamente è l’area euro, chi
"colpisce" per primo, comprimendo i salari e il CLUP (quindi i tassi
di cambio reale legati all'inflazione differenziale) consolida il vantaggio.
Il riallineamento competitivo via “taglio” dei salari "successivo", infatti, unito
alle misure di austerità imposte per l'ugualmente pro-ciclico consolidamento
fiscale (che tende rigidamente a garantire i creditori interni alla stessa
area), provoca una tale caduta della domanda nel paese "a maggior inflazione" (salariale e
anche indotta dalla domanda drogata dai crediti esteri) da:
- deindustrializzarlo e vanificare con un
"effetto strozzatura" la
ipotetica riespansione della produzione (impianti in gran parte smantellati);
- colonizzarne a "fabbrica cacciavite" l'economia
(lavorazioni a minor valore aggiunto, non esigenti investimenti, resi
progressivamente impossibili dalla caduta verticale della domanda e dal credit crunch).
Questa
seconda ipotesi è quella che più incombe sull'Italia, anche a causa della
originaria via italiana al "tentativo"
di deflazione salariale, cioè il precariato
"sotto-demansionante",
che dissuade, in pratica, data la maggior
convenienza industriale del lavoro sotto-qualificato e temporaneo, da
investimenti in IR&S. La “regressione industriale” non potrà
nemmeno essere scongiurata da, peraltro denegati, interventi "illimitati" della BCE-ESM riduttivi
degli spread che, come già evidenziato,
agiscono sugli effetti e non sulle cause degli squilibri provocati dalle "monete uniche".
Stiamo
correndo, comunque, vada, verso la dissoluzione
della democrazia fondata sulla tutela del lavoro (art.3, paragrafo 3, tr.
istitutivo UE e 145-148 tr. sul "funzionamento" dell'UE) e più ancor
che l'Europa, stiamo distruggendo la sua cultura civile, vìolando, oltretutto,
come si vedrà, le stesse regole "fondamentali"
che Stati membri e istituzioni UE si erano imposte.
Bisogna
dunque essere coscienti che, in esito al processo di riallineamento attualmente
perseguito, si creerebbe, all’interno dell’Europa, una "specializzazione"
produttiva e finanziaria tra:
1. paesi centrali UEM, destinati a
mantenere un più forte avanzo commerciale, perchè lo nutrirebbero di merci ad alto valore assoluto e aggiunto;
2. paesi "cacciavite", soggetti a concorrenza e congiuntura più
forti, in ragione della maggiore
esposizione concorrenziale extra-UEM, cioè da parte dei paesi emergenti.
Tanto più
che il "cosa" produrre e
"dove", in questo assetto,
lo deciderebbe la Germania, o altro paese “core”,
che acquisirebbero il controllo dei
sistemi bancari e produttivi degli altri (di fatto la cosa è già in atto e
il vero rischio, per la Germania, è la pendenza delle sofferenze sub-prime annidate…negli USA, nelle
famose controllate “discarica” del
loro "estroso" sistema
bancario).
Per l'Italia
questa non solo sarebbe una colonizzazione
neppure strisciante, ma anche la "garanzia"
di decine di anni di crescita stagnante,
dove il valore ridotto pro-unitario dell'export
e la debolezza della domanda interna, si accoppierebbero alla più accentuata
ciclicità dei mercati delle tipologie di beni prodotti in concorrenza ai “paesi emergenti”. Ovviamente, la
disoccupazione dovrebbe sempre rimanere "incombente", da cui l'attenzione spasmodica sulle riforme "strutturali" che si riducono essenzialmente a politiche di deflazione salariale, o di
contrazione della spesa pubblica,
cosa che, in termini di praticabilità degli investimenti, e della conseguente
crescita della indispensabile occupazione “qualificata”,
ha un effetto equivalente.
In questa
situazione, la politica tedesca soffre della intrinseca contraddizione logica
di imporre prima uno standard di competizione elusivo dello “spirito” cooperativo che dovrebbe
permeare le regole dell’Unione, e poi di imputare agli altri, che hanno subito
gli effetti distorsivi di tale politica, responsabilità
e misure di adeguamento che finiscono per aggravare sia la posizione dei
debitori, sia la propria stessa sicurezza nella posizione di creditore.
Rifiutando di prestare, ora come prima, la cooperazione indispensabile per
poter coesistere all’interno di un’area valutaria comune.
Diciamo che
è una questione di "potere", (cioè di un tipico
corollario dell’imperialismo mercantilistico), esercitabile su "altri", invece che di
giustificabili timori di maggiori aggravamenti dei propri conti pubblici.
Cerchiamo di
spiegarci meglio: se “saltano” i sub-prime in USA e le banche tedesche sono "esposte" in sofferenze (e lo
sono ancora, come s’è detto, specie le controllate USA), alla Germania non
salta in mente di dire alle proprie banche: “avete sbagliato a concedere il credito ora sbrigatevela da soli”.
Lo Stato federale è intervenuto a
trasferire soldi pubblici (sottratti ad altri scopi del pubblico bilancio) alle banche, del cui "sistema" è, oltretutto, azionista
circa al 40%.
Ma se la
stessa situazione di insolvenza si verifica per i greci o per gli irlandesi,
sono i rispettivi Stati che, - in situazione di crisi di liquidità determinata dall'innalzamento del debito privato
oltre ogni sostenibilità (per consumi a "debito"...di beni importati e per afflusso di capitali dai
paesi “core”, prestati in ragione di
interessi nominali, e reali, più alti e crescenti, espressi nella stessa
valuta, ed impiegati in un'eccessiva intrapresa immobiliare)- danno i soldi
alle proprie banche.
E come fanno? Emettendo debito
pubblico, cioè gravando i cittadini, già debitori a titolo privato degli
stessi “creditori”.
Questo
debito pubblico, a sua volta, provocando la crescita della domanda di credito
in una moneta priva del sostegno di un prestatore di ultima istanza, sarà più
difficile da collocare e ne crescerà l'onere
per interessi (che gravano sul bilancio pubblico fino a diventare
insostenibili). Chi sottoscrive questi titoli pubblici (le stesse banche
creditrici dei privati, tra l'altro), dunque e va ribadito, lo fa per gli
interessi più alti, guadagnandoci; e, beninteso, come già più alti erano gli
interessi reali riscossi per i crediti “facili”
erogati, allo stesso sistema privato dei paesi periferici,…proprio per cui
sostenerne la domanda di beni importati.
In tale
situazione, gli interventi di iniezione di liquidità “a carico” dei vari fondi UE,
per salvare il bilancio pubblico del paese debitore dal "fallimento-insolvenza", sono
attualmente, per patto tra Stati membri, ripartiti per quote proporzionali tra
tutti gli Stati stessi: la Germania
eroga, (per ordine di grandezza del PIL) la quota maggiore, anche se però "riceve" in successiva restituzione (del debito privato
sottostante) anche una quota ben maggiore del volume complessivo dello stesso
intervento, ma non a livello pubblico, appunto a livello privato bancario.
Cioè i soldi
tedeschi in uscita per il “salvataggio” (più o meno gravanti su
ogni cittadino, procapite, quanto gravano sul cittadino italiano o francese)
sono corrisposti emettendo debito pubblico o garanzia equivalente: il che
significa che, per rimpolpare, in definitiva, le proprie banche, la Germania
emette un debito "avvertito"
dai contribuenti in quanto pubblico, e perciò l'esigenza politica di incolpare il debitore privato greco o PIGS
di questo "aggravio"
fiscale, non addossando in modo trasparente la responsabilità al proprio sistema bancario, irresponsabile prestatore. Ma l'aggravio è sempre molto minore di
quello che la Germania dovrebbe sopportare, per gli stessi comportamenti "imprudenti" bancari, al di fuori
dell'UEM. In tal caso si prende in carico, sul bilancio pubblico, di tutto il
credito bancario inesigibile, com'è accaduto appunto nel caso dei subprime USA.
L'alternativa sarebbe lasciare fallire le banche e
nazionalizzarle per garantire i depositi (entro limiti ragionevoli),
nonché separando gli istituti di credito
commerciale da quelli speculativi finanziari, che agiscono sui mercati con
la logica del proprio profitto e non dell’interesse dei risparmiatori che gli
affidano i capitali impiegati. Ma le banche comandano (tramite Bundesbank) e non lo consentono...per
ora (finchè i cittadini UE tutti non si desteranno dal torpore “europeistico” in cui sembrano piombati).
Alternativamente,
appunto, si può creare senza limiti, tramite la BCE, "nuova" liquidità per acquistare i
titoli pubblici in euro, nella misura e per tutto il tempo necessari. Ma
qui subentra la paura dell'inflazione,
irrazionalmente alimentata nei termini visti in precedenza.
Quindi, in
definitiva, il rifiuto tedesco (a ogni tipo di intervento) è del tutto
irragionevole e determinato esclusivamente da una visione politica di breve termine, che dimentica la "ragione" del credito concesso,
privato a privati, e che sta alla base di tutto: il sostegno delle proprie
esportazioni agevolate dalla moneta comune (cioè dalla immutabilità del cambio
nominale, potendosi invece agire svalutando il tasso di cambio reale, tramite
la compressione retributiva). Ma questa è una crisi "tipica" e già ampiamente vista e prevedibile dagli economisti
tanto più qualificati, quanto tutt’ora inascoltati.
3- EURO E
VIOLAZIONE DELLE NORME DEI TRATTATI, ISTITITUVO E SUL FUNZIONAMENTO DELL’UE, DA
PARTE DI GERMANIA E ISTITUZIONI UE
Detto
questo, sforare, come ha fatto la Germania al tempo delle riforme Hartz, il
limite debito/PIL (che quasi inizialmente rispettava) per ”fiscalizzare”, (fuori da una situazione congiunturale in atto,
attenzione!) i costi di
disoccupazione-sottoccupazione, indotte per deflazionare le retribuzioni,
vìola:
A) l'art.107, paragrafo 1, ultima parte, dell'attuale trattato sul funzionamento
dell'unione (TFUE), in materia di “aiuti di Stato”, laddove si ottenga
(appunto "in qualsiasi forma")
una riduzione dei costi delle proprie imprese, incidente sugli scambi tra paesi
membri, come nel caso, mediante la svalutazione del tasso di cambio reale, che
provochi, a sua volta, un vantaggio
concorrenziale asimmetrico “intenzionale”,
sia per le proprie esportazioni, sia, e ancor più, a favore di una restrizione
delle importazioni (questo l'effetto forse più rilevante del gioco sui tassi di
cambio reale);
B) l’art.107, paragrafo 3, TFUE, cioè il complesso delle clausole in tema di “legittimazione”, in sede UE, a ricorrere
agli aiuti di Stato in funzione
anticongiunturale e di tutela di interessi “sensibili”.
Ed infatti, la situazione attuale, tra l'altro, autorizzerebbe, (se non ora
quando?) tutti i paesi in strutturale deficit della bilancia dei pagamenti, con
alti livelli di indebitamento privato/estero -e non pubblico!- oltre la media
per un periodo prolungato e significativo, (rilevabile sul sistema T2)- a
lanciare programmi di aiuto ai sensi dello stesso art.107, par.3, lett.a), b),
d) del Trattato sul funzionamento dell’Unione...ma tali paesi non possono farlo
in quanto il fiscal compact, come corpo di disposizioni speciali "euro-zona", impedisce
deliberatamente l’adozione di misure
essenziali in origine legittime secondo il trattato, vincolando le
politiche fiscali alla autodistruzione dei rispettivi sistemi industriali e
alla cristallizzazione degli squilibri di area (altrimenti doverosamente
compensabili);
C) l'art.34 dello stesso Trattato sul
funzionamento dell’Unione: "sono
vietate tra gli Stati membri le restrizioni
quantitative all'importazione nonché qualsiasi misura di effetto
equivalente (tale essendo la deflazione salariale al fine di deprezzare il
tasso di cambio reale, giustificata solo da fini di competizione
mercantilistica).
Ma la stessa
Commissione e il consiglio UE, non vanno esenti da una “imprecisa” e omissiva applicazione dei trattati, come
essenzialmente evidenzia De Grauwe. Ciò può desumersi dall’oggettivo contenuto
di una serie di disposizioni dei trattati medesimi, interpretate correttamente
e, soprattutto, nella piena espansione delle clausole in esse contenute:
ad es.,
l’art.5 del TFUE
“1. Gli Stati membri coordinano le loro politiche economiche nell'ambito dell'Unione. A
tal fine il Consiglio adotta delle misure, in particolare gli indirizzi di
massima per dette politiche. Agli
Stati membri la cui moneta è l'euro si applicano disposizioni specifiche
(ancor più stringenti e ancor più ignorate n.d.r.)...
2. L’Unione prende misure per assicurare il coordinamento delle politiche occupazionali
degli Stati membri, in particolare definendo gli orientamenti per dette
politiche.
3. L'Unione può prendere iniziative per assicurare il coordinamento delle politiche sociali
degli Stati membri.”
Dove siano
finite queste misure e iniziative per
coordinare politiche economiche, occupazionali e sociali, a fronte del
conclamato atteggiamento, tenuto dalla Germania, di unilaterale e non
cooperativa alterazione degli equilibri, già di per sé estremamente difficili
da raggiungere, è un interrogativo che non ci si può esimere dal porsi.
Cercare
altre norme nei trattati, oltre a quelle menzionate, si può (v. infra), ma solo per accorgersi che non
vengono fatte rispettare nella lettera e nello spirito e tutto rientra nello
stesso "disegno" tanto
evidente, quanto, nella sostanza, prevalentemente taciuto dai media europei,
forse troppo influenzati dalla loro proprietà finanziaria.
E’ pur vero
che, proprio in questi ultimi giorni, la Commissione pare avere avuto un
parziale “ravvedimento”, forse
stimolata dagli unanimi pareri di tutti gli economisti più prestigiosi nel
commentare la criticità della situazione
di “asimmetria”, apertamente
perseguita, in cui si continua a indugiare, iniziando a porsi il problema
dell’atteggiamento tedesco.
László Andor, commissario europeo per gli affari sociali, intervistato da FAZ.net, ha preso posizione con il rappresentare ai tedeschi questa “dura verità”: “le vostre politiche di dumping salariale hanno contribuito alla
crisi Euro, non è tutta colpa dei latini”. Si riportano alcuni passaggi
salienti:
“Gli squilibri nell'Eurozona non sono solo il
risultato di politiche sbagliate nei paesi in crisi. La Germania ha avuto un ruolo importante, con la sua politica mercantilista ha rafforzato gli squilibri in
Europa e causato la crisi. In futuro dovremo seguire da vicino lo sviluppo
dei salari a livello europeo e fare in modo che all'interno dell'area monetaria
non divergano in maniera così forte, come è accaduto negli anni precedenti.
…La commissione
intende verificare la politica economica degli stati e per fare questo ha
in mano i mezzi necessari per procedere
contro gli Stati che non fanno nulla contro gli squilibri nella zona Euro.
La Germania tuttavia deve porre a se stessa la domanda, se nell'Unione Europea
intende procedere secondo il motto : "in Europa non sono tutti
uguali".
Circa tale
nuova “attenzione”, da parte della
Commissione, ai problemi degli squilibri commerciali e dei tassi di cambio
reale, viene da chiedersi: perchè lo fanno solo “ora”, mentre si accingono (dal 2013 in poi) "anche" ad applicare le nuove sanzioni previste dal fiscal compact (che non potrà che
accelerare i problemi stessi, facendo languire le economie “indebitate” via deficit delle partite
correnti e ritorcendo contro la stessa Germania i problemi di drastica
riduzione della domanda di cui continua a non curarsi)?
In effetti,
volendo anche solo focalizzare sulle politiche
europee dell’occupazione, gli artt.
145-148 del Tr. sul funzionamento UE risultavano già violati, fin dai primi
anni 2000, dal complesso delle politiche tedesche e, segnatamente, delle
riforme Hartz. Le clausole oggettivamente ignorate, all'interno di tali
previsioni, sono molteplici. C'è solo da scegliere.
La
commissione stessa è dunque, fino ad oggi, venuta meno ai criteri di monitoraggio, coordinamento e promozione dell'art.147,
per cui doveva "tenere conto"
dell'"obiettivo di un livello di
occupazione elevato", cioè nel quadro dell'art.3, paragrafo 3, del
Trattato sull'UE, che pone l'obiettivo
della "piena occupazione"
ed è dunque strutturalmente incompatibile con politiche del lavoro nazionali il
cui effetto si risolva nella "deflazione
salariale" non necessitata (come si torna a sottolineare) in base a
congiunture internazionali, circostanza pacificamente ammessa dai tedeschi.
Ciò, per di
più, in un quadro non coordinato a
livello UE di politiche del lavoro -art.146, comma 2, TFUE- e che si è
risolto, come si è visto sopra, in misure di effetto equivalente alla
restrizione delle importazioni rispetto agli altri Stati membri (art.34
st.Tr.).
Inutile dire
che risulta “dimenticata”, rispetto
alla linea tenuta dalla Germania all’interno dell’area UEM, anche
l’attivazione, da parte della Commissione, dei meccanismi di accertamento e “avvertimento”
previsti dall’art.120 par.4, TFUE.
4- QUESTIONE
DI DIRITTO RELATIVA ALL’EURO-EXIT.
Partiamo dal
quadro dimostrativo qui costruito sulla base non solo delle analisi compiute
dai maggiori economisti, ma anche delle ammissioni provenienti dalla stessa
Germania. Quest’ultima, unilateralmente, e nel solco della sua tradizione “deflattiva” orientata all’esportazione, riassumibile nella
formula “imperialismo mercantilista”, ha violato, quantomeno nello “spirito” connesso al necessario intento
cooperativo all’interno di un’unione monetaria, le norme sopra evidenziate.
E tale
violazione assume, nella sua logica
competitiva e non cooperativa, un particolare connotato lesivo proprio nei
confronti dell’Italia, maggiormente colpita dalla logica mercantilista
innescata dalla Germania. Di ciò tale paese è stato cosciente fin dallo stesso
concepimento della moneta unica.
Si potrebbe
dire che la Germania è fuoriuscita, con il suo comportamento, dalla “giustificazione causale” dell’intero
impianto pattizio UEM, respingendo unilateralmente la funzione “socio-economica”
del trattato (ciò sul piano contrattuale corrisponde alla violazione del
dovere di adempimento secondo “buona fede”
in senso oggettivo, esprimendosi tale “correttezza”
nell’onere di sostenere ogni ragionevole sacrificio per rispettare il normale
significato che le controparti potevano attribuire ai vincoli comunemente
assunti)..
A ciò, va
aggiunto, a titolo esemplificativo ulteriore, che, in un esame sistematico
delle pletoriche disposizioni dei trattati, risultano fondamentalmente
disattesi anche:
- l'art.120
del TFUE, che obbliga gli Stati a “coordinare
le politiche economiche per
realizzare gli obiettivi dell'art.3 del trattato sull’Unione europea” (più
volte citato), tra cui appunto la “piena occupazione”;
- l'art.127
stesso tr., che vincola la politica
monetaria, oltre che alla stabilità
dei prezzi, anche al sostegno di “politiche
economiche generali nell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli
obiettivi dell’Unione definiti nell'art.3 del trattato sull’Unione europea”.
Quest’ultimo
aspetto è “singolare”, perchè, pur
gettando una luce alquanto diversa sui presunti limiti di intervento della BCE, e più ampiamente del SEBC, cioè del “sistema europeo delle banche centrali”,
il mandato di tali (uniche) istituzioni UEM pare essere stato, fin’ora, inteso in
contraddizione con la esplicita lettera dell’art.127, rimanendo ignorato il richiamo agli obiettivi dell’art.3, in specie
alla predetta “piena occupazione” (come se tali parole, nell'art.127 stesso,
non fossero affatto scritte).
A questo
punto l’uscita dall’euro e dal suo
inestricabile sovrapporsi di politiche monetarie e fiscali inevitabilmente
squilibrate, che acuiscono la situazione di sua originaria “disfunzionalità tecnico-economica”, con
devastanti conseguenze per i paesi finiti nella inevitabile situazione di
importatori-debitori esteri-fiscalmente deficitari, diventa una questione che ha varie qualificazioni
giuridiche possibili.
Non ultima
quella per cui, l’alterazione del modo di intendere la lettera e la portata
delle norme del Trattato nella loro piena
forza espansiva, “resecandone” il
disposto in modo da avvantaggiare unilateralmente una parte del trattato,
risulta addirittura “ultra vires”
rispetto alle competenze dell’organizzazione sovranazionale, rendendo fortemente dubbia tutta la legittimità
comunitaria (o “europea”) di
successive pattuizioni, quali six packs
e fiscal compact, che non risultano
più avere un adeguato e sufficiente antecedente convenzionale (di fonte
superiore “legittimante”) nelle
previsioni del trattato pienamente intese.
Circa i mezzi legali di “uscita” si richiama talvolta l'art.50 TFUE: questo prevede una procedura di uscita dall'Unione che non pare però attagliarsi al
caso della cessazione dello specifico vincolo pattizio riferito all’euro.
Infatti, si
tratta di una norma "speciale"
ma ciò, in primo luogo, non in quanto contenuta in un trattato (cioè nel
diritto internazionale “speciale”),
ma per la sua particolare “onerosità” procedimentale e politica.
Di per sè, in quanto tale, deve interpretarsi con riferimento al suo specifico
oggetto: regolare con una procedura politicamente “rafforzata”, e in modo da indurre consistenti tempi di ponderazione
al paese interessato, l'uscita
dall'Unione in forma di "recesso".
Si tratta,
cioè, della decisione volontaria di uno Stato, politicamente discrezionale
(libera nei “motivi” e nei “fini”), entro i limiti del rispetto
della procedura. Peraltro nella procedura stessa sono previsti ampi limiti di
deterrenza e una parziale sindacabilità della scelta. La finalità “riflessiva” e la distillazione di tempi
e adempimenti, nell’ambito di tale complessa procedura, peraltro, come si è
anticipato, costituisce dunque la vera "specialità" della disciplina, essendo invece l'ipotesi di recesso volontario tout court, corrispondente alla prassi
prevalente (salvi opportuni tempi di preavviso), specie se si tratti di patti
internazionali ad ampio “impatto”, in
ragione della vastità e incidenza dell’oggetto e dell’intenso vincolo politico
che implicano, prolungato in un arco di tempo praticamente “illimitato”.
Inoltre,
quella prevista dall’art.50 è, sotto un altro profilo, un'ipotesi non connotata
dal ricorrere di un "legittimo"
e “giustificato” motivo di
auto-tutela della sovranità e dell’ordine pubblico interno propri di un certo
Stato-membro. Il suo specifico oggetto-procedura pone, come s’è visto, il
problema della sua applicabilità o meno, anche in via analogica, al caso del
recesso “meramente volontario” (non “causale”) dalla sola Unione monetaria:
tale limite interpretativo, sul piano della teoria generale, escluderebbe la
possibilità dell’applicazione analogica al caso dell'uscita delimitata alla
moneta unica.
Quest'ultimo
caso va allora ricondotto alle norme generali del diritto internazionale anche
sotto ulteriori profili.
Tra queste
ultime norme rilevano (ormai come prassi internazionale consolidata) quelle
della Convenzione di Vienna in
materia di diritto dei trattati, conclusa nell’ambito della cornice ONU: si
tratta di una sorta di codice (in parte ricognitivo della prevalente consuetudine
e in parte fondativo di un nuovo diritto consuetudinario), relativo alla
disciplina di tutte le fonti pattizie e che si applica, perciò, a tutti i
trattati compreso quello UEM- sebbene la cosa sia complicata dal fatto che “Maastricht” contiene anche norme non
riguardanti la UEM e che, comunque, quest’ultimo trattato risulta poi inglobato
nel trattato sul funzionamento dell’Unione (a sua volta frutto del
consolidamento conseguente alla conclusione-ratifica del trattato di Lisbona).
In linea di principio,
denuncia o recesso – “meri”, cioè non
connotati dalla legittimazione alla “rottura” fornita dai comportamenti “alteranti” altrui, o da cause
sopravvenute di disfunzionalità ed eccessiva onerosità -, sono possibili
allorchè previsti, anche implicitamente, dallo stesso trattato considerato. E
sulla individuazione di una volontà
implicita di “risolubilità” del
vincolo della moneta unica non influisce, ovviamente e per definizione, la
mancanza di previsione “espressa”,
rendendo ciò solo più difficile il percorso ermeneutico, difficoltà “ricercata” dalla commissione “Attali”, che
tuttavia non preclude, appunto, di superarla.
L'art.50
TFUE sopra citato, conferma semmai che, al di là della specialità derivante
dalla sua peculiare procedura, i trattati UE contemplano implicitamente (come
prevede in materia la Convenzione di Vienna), in forza di oggettivi fatti
concludenti, e in considerazione della loro natura di convenzioni senza
termine finale, la normale ipotesi di una volontà negoziale nel senso della estinguibilità per recesso-denunzia “anche” del trattato UEM, cioè
dell’insieme delle relative disposizioni in quanto scorporabili dal corpo più
ampio dei trattati UE.
D’altra
parte, tali considerazioni nulla escludono, circa le "altre" connesse
cause generali di estinzione ex parte
coinvolta, previste dalla Convenzione di Vienna medesima. Tra queste ultime, "l'inadempimento
della controparte" (art.60: principio “inadimplenti non est adimplendun”) e la sopravvenuta impossibilità dell'esecuzione (art.61 c.d. clausola rebus sic stantibus, art.61).
A fronte del
quadro di alterazioni "rimarchevoli" dello spirito e
della lettera di molte fondamentali clausole del trattato, quale sopra
ampiamente evidenziato, queste ultime due cause di estinzione volontaria
appaiono ampiamente utilizzabili da parte dello Stato italiano, una volta che
l’interesse che giustifica l’originaria adesione al trattato stesso, fosse
nuovamente e correttamente riferito al livello di tutela proprio della comunità
statale che ha originariamente espresso la sua adesione.
In altri
termini, la funzione e gli obiettivi fondamentali dell’Unione, anche nella loro
proiezione “monetaria”
(concretizzatasi nella scelta dell’adozione dell’euro), non possono che
individuare, come parametro di correttezza dei comportamenti riconducibili ai
vincoli pattizi, l’interesse negoziale, “reciproco” e condiviso, dedotto dal
soggetto (statale) aderente. Tale interesse ha una sostanza giustificativa
inevitabilmente comune a tutti gli Stati-membri, dunque valevole come “condizione”
essenziale (paritaria) per l’adesione, e deve necessariamente consistere
nella promozione del “benessere” dei cittadini che in quel
soggetto aderente si riconoscono.
Da tale
rilievo, tra l’altro, si può trarre la ragionevole e obiettiva deduzione
interpretativa che la stessa manifesta violazione
delle condizioni di parità “di interesse sostanziale” tra Stati
(e rispettivi cittadini soggetti alle conseguenze politiche economiche del
trattato) integri di per sé la “eccessiva
onerosità” che giustifica l’invocazione della clausola “rebus sic stantibus”.
Su questo
solco interpretativo, va allora rammentato che l’art.11 Cost., seconda parte afferma che l’Italia “consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri
la pace e la giustizia tra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo”.
Pertanto,
alla luce della giustificazione costituzionale e della “causa naturale” della stessa
partecipazione “europea”, ove:
- nell’applicazione
di un trattato tali condizioni di parità
non siano state effettivamente reciprocamente garantite, in conseguenza di
un’interpretazione “inattesa”,
secondo il metro della “buona fede in
senso oggettivo”, ovvero addirittura “dolosa”,
delle clausole del trattato da parte di altri Stati membri;
- le
posizioni univocamente assunte da altri partners
- che abbiano vìolato o “eluso” principi o obiettivi fondamentali della
convenzione-, mostrino che le medesime “condizioni”(parità
e perseguimento omogeneo del benessere dei cittadini) siano divenute non più avverabili a costi obiettivamente
ragionevoli, nonché coerenti con un quadro
correttamente cooperativo (che è la “causa”
generale “tipica” di tale tipo di
trattati);
- ne
discende che la denunzia del trattato secondo, quantomeno, il principio “rebus sic stantibus” (mutamento
essenziale dei presupposti giustificativi del patto internazionale), appare un dovere attuativo della previsione
costituzionale.
Alla luce
delle (impressionanti) evidenze espresse dalle analisi concordi della comunità
scientifico-economica, l’alterazione delle “condizioni di parità”,
nonchè l’irreversibile mutamento dei
presupposti essenziali che hanno giustificato l’assunzione del vincolo,
(secondo le dichiarazioni pubblicamente espresse dalle parti in sede di
trattativa), si stanno palesando in un modo conclamato dai fatti. Tali fatti,
segnalano, quantomeno, la sopravvenuta
eccessiva onerosità del vincolo UEM, laddove assunti secondo attendibili e
ampiamente condivise analisi degli effetti economici provocati, sicchè essi risultano
contrastanti con gli obiettivi
costituzionalmente legittimi di una possibile prosecuzione della vigenza
del trattato in questione.
Come
riflessione finale, vale la pena di osservare che la rilevanza del geschaftsgrundlage - cioè della c.d. “teoria della presupposizione”, cui si
riconduce il brocardo “rebus sic
stantibus” racchiuso nell’art.61 della Convenzione di Vienna- è ben
considerata nell’ambito dei principi e
dei valori promossi dalle istituzioni europee: “Das ist nicht eine diplomatische Floskel, mit der wir angenehme
Geschäfte wie eine Höflichkeitsformel einleiten, sondern das ist die Geschäftsgrundlage” (trad: “tale affermazione non è una vuota formula
diplomatica né una frase di cortesia cui ricorriamo per fare affari piacevoli;
al contrario, essa esprime le condizioni stesse alle quali vengono conclusi i
nostri affari”).
Questa
definizione, non a caso, è ricavabile dal seguente link: http://www.europarl.europa.eu/, aprendo il
quale si trova la formula “Welcome to the
European Parliament”.
Sarebbe
singolare che la locuzione “lo vuole l’Europa” fosse perciò
riferita solo alle più incerte e controverse decisioni monetarie e fiscali,
ormai sotto l’ombra del forte dubbio che abbiano violato le norme fondamentali dettate dall’Europa stessa, e non
invece assunta nell’accezione di tutela
della democrazia e del benessere dei cittadini che ci suggerisce l’art.11 della nostra Costituzione.
L’idea e l’istituzione europea meritano di essere
associate, piuttosto, a valori come
giustizia, benessere diffuso, razionale e trasparente distribuzione delle
risorse e, in definitiva, “democrazia” per tutti i popoli
coinvolti nella sua tormentata costruzione.
Da quello che mi é stato dato capire, stanti i limiti della mia non specifica conoscenza della prassi giuridica, con l'assistenza di un agguerrito staff di valenti, agguerriti e convinti (= di parte) specialisti di diritto, sarebbe possibile svincolarsi dall'Unione disdicendo i Trattati in base al principio che essi sarebbero stati violati da uno o più membri così, che , "rebus sic stantibus", la permanenza nell' U.E. dello stato denunciante sarebbe contraria agli interessi che la sottoscrizione dei trattati medesimi avrebbe divuto garantire. Cioé: decadenza degli impegni cotrattuali per violazione unilaterale dei patti concordati. Sbaglio ?
RispondiEliminaGeremia
RispondiEliminaL'articolo si può considerare una interessante guida per un'eventuale azione di svincolo ed é meticolosamente e convincentemente argomentato.
Mi dispiace comunque molto che il dott. Piero Valerio lasci, spero del tutto temporaneamente, questo Blog che si é potuto considerare fino ad ora qualcosa di assai valido a chiarire le problematiche spesso oscure della situazione economica e politica italiana del criticissimo momento attuale secondo un punto di vista competente e direi pure appassionato. Mi permetto di esprimere al dott. Valerio, oltre che tutto il mio positivo apprezzamento, anche i miei ringraziamenti più sentiti per l'efficacia informativa dei suoi scritti.
In attesa di metabolizzare il complesso documento, contraccambio gli auguri di Buone Feste (in attesa, magari, di fare la festa politica a chi queste feste ce le sta rovinando perché "lo vuole l'Europa"), con un auspicio: che gli spezzoni di tempo libero di Piero siano tanti, perché questo blog è divenuto, per dirla alla Brecht, imprescindibile.
RispondiEliminaDopo aver letto velocemente l'interessante articolo,ne deduco che siamo di fronte alla più grande associazione a delinquere forse mai vista nella storia.
RispondiEliminaTra giullari miliardari,stampa corrotta e politici che prendono solo ordini da gruppi massoni nell'intera Europa ci sarà da ridere.
Il grande problema per la democrazia del continente sono la possibilità di non poter comunicare per una questione linguistica,se la gente potesse parlarsi,la vita per questi giullari sarebbe
molto più difficile.
Per pagare il giullare i soldi li trovano! Elezioni: penso che essere pessimisti non serve a nulla. Io sono ottimista perche' a Grillo si aggiunge berlusconi che sta portando il pdl lontano dall'area Bildelberg/Germania. Mancano ancora 2 mesi al voto. I dati economici di Monti sono un disastro ed il camerata piddino bersani ha ringraziato Monti per il lavoro svolto(?) ed e' cosi' stupido da dire che il suo programma e' lo stesso di Monti. Siamo sicuri che il pdl i suoi alleati e Grillo otterranno meno voti dell'area euro? Io vedo che chi e' di sinistra e a favore dell'euro votera' Bersani chi e' di centro destra a favore dell'euro votera' Casini. Mentre chi e' di sinistra contro l'euro votera' Grillo e chi di centro destra contro l'euro Berlusconi e lega. Grosso modo! Magari per votare Berlusconi occorrera' turarsi il naso col cemento, ma l'offerta contro l'euro non e' che non ci sara' e non e' una cosa sana non andare a votare. Certo non si sommano, almeno per ora, e nessuno di questi soggetti parla apertamente di uscire dalla moneta unica, ma tra un po' aumentando la crisi, sara' chiaro che non c'e' alternativa. Per male che vada, facciamoci pure governare un po' da Bersani-Monti, se avranno i voti. Dureranno poco, il loro servilismo continuera' a fare disastri. A me basta che, quantomeno, ci sia in parlamento e quindi nel paese una forte e consapevole opposizione all'euro. Credo che ci stiamo incamminando su quella strada. E piano piano, anche in Francia ed in altri paesi...
RispondiEliminaGrazie Anonimo mi hai messa di buonumore....ne avevo proprio bisogno, stavo affogando nel piddinismo intorno a me (se non ci sarà la crescita é perchè hanno fermato Monti!!!!)
EliminaFaccio i miei migliori auguri a tutti i frequentatori e auspico che Piero ci dia almeno un post al mese per tutto il 2013 (intanto)....
questo partito mi e' stato segnalato su questo blog...e cmq mi piacerebbe che fosse tenuto in considerazione, sempre se riuscira ad entrare nelle liste..., un partitino del quale, sinceramente mi fiderei, piu che del Berlusca
Eliminaio lo ricordo anche in questa discussione..in attesa di febbraio
http://quellichesi.it/programma.html
http://www.facebook.com/QuelliCheSI
e non perdete i video
http://www.ingannati.it/2012/12/14/lista-si-siamo-italia/
Buone FESTE
NON ILLUDERTI E' TUTA UNA MANFRINA CONTRO GRILLO.
EliminaIL LORO OBIETTIVO E' DI RIMETTERE IN SELLA MONTI.
NON IMPORTA SE DI DESTRA O DI SINISTRA L'IMPORTANTE
E' CHE CON GRILLO SI POSSANO VOTARE VIA TUTTI.
CMQ HAI RAGIONE SU UNA COSA BERSANI HA GIA' DICHIARATO
AL TIMES CHE SE VINCERA' LE ELEZIONI NON RINEGOZIERA'
LE CONDIZIONI DEL PATTO DI STABILITA'.
QUELLI DEL PD SONO STUPIDI INSIDE.....
Anche la vecchia volpe, quella col Baffino, ieri è scesa in campo da Fazio per dire che la battaglia elettorale è tra il PD e Berlusconi, cercando così di ricompattare il "suo" elettorato riesumando l'antiberlusconismo viscerale e mettendo fuori gioco, col fatto di non considerarli, Grillo e altre liste di "disturbo", come quella di Ingroia-De Magistris. La "gioiosa macchina da guerra" s'è già inceppata una volta, e io confido in un bis
RispondiEliminaIl punto è che non ci sono ancora dei programmi chiari, a parte quello del M5S e di chi vuole seguire anzi proseguire "l'agenda Monti". Attendo chi dirà apertamente che si può e si vuole uscire dall'euro e dai trattati capestro, così come dirà che fermerà Equitalia, rinuncerà all'acquisto dei caccia, permetterà l'accesso al credito privilegiando le piccole e medie imprese e non la GDO e le megastrutture o i franchising e i finti outlet; di certo starò dalla parte di chi vuole il milione di posti di lavoro individuati dal prof. Gustavo Piga e quelli indicati, ormai da anni da Maurizio Blondet, nel settore dei beni artistici e nel turismo. Logicamente siccome altri avevano promesso cose simili, come abbattere le tasse e ridurre la pressione fiscale, o lo sviluppo e riammodernamento nel settore agropastorale, occorre che vengano indicati i tempi e i modi, offrendo certezza sull'iter. E' doloroso e umiliante sentirsi dire, da politici giuda, "non lo possiamo fare".
RispondiEliminaESISTE
RispondiEliminaLISTA SI - SIAMO ITALIA
Candidata Premier Paola Musu
sito internet www.quellichesi.it
mi pare che il progetto non stia prendendo piede
EliminaPaola Musu, ha abbandonato, ha fatto una lista sua per poi abbandonare anche quella
in lista si siamo italia non e' contemplato un progetto memmt anzi.. non e' nemmeno preso in considerazione dal suo rappresentate piu autorevole, alberto mondini
io sono passato a considerare
http://ioamolitalia.it/
di magdi allam...mi dareste un vostro parere?
http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=mVmTY5nz6lg
RispondiEliminaAltro articolo sull'argomento:
RispondiEliminahttp://www.sinistra.ch/?p=2351