Dopo
gli ultimi scossoni elettorali in Europa la dottrina mistica del rigore e
dell’austerità filo-tedesca comincia a mostrare le prime crepe. In Francia, il nuovo presidente Hollande aveva detto di voler rimettere
in discussione gran parte delle direttive del Fiscal Compact, in particolare
quelle che prevedono un rientro programmato del debito pubblico cumulato entro
la soglia del 60% del PIL e la disciplina del pareggio di bilancio come regola
aurea (?) di comportamento da parte dei governi nazionali (in una crisi creata
esclusivamente dall’eccesso di debito privato, non ha alcun senso continuare a penalizzare
la finanza pubblica). Ma bisogna ancora capire fino a che punto i propositi di
Hollande facevano parte di una precisa strategia propagandistica da utilizzare
solo in campagna elettorale e dove cominciano invece le reali intenzioni di
sovvertire la severa impostazione
rigorista e deterministica della tecnocrazia europea, che asseconda il
ciclo recessivo in corso e lascia poco spazio alla discrezionalità delle
manovre anticicliche di politica economica dei singoli stati e dell’unione nel
suo complesso.
In
Grecia le elezioni hanno mostrato un’evidente
insofferenza nei confronti delle stesse regole di austerità da applicare sia al
settore pubblico che privato in cambio dei pacchetti di aiuti di salvataggio. Il
voto in Germania ha bocciato lo
stesso partito della Merkel. In Italia
dopo le elezioni amministrative che hanno decretato un successo clamoroso della
nuova compagine politica del Movimento 5
Stelle di Beppe Grillo, sia a destra che a sinistra sono cominciati i mal
di pancia verso il governo dei banchieri guidato dal tecnocrate europeista e
neoliberista Mario Monti, dato che l’eccessivo appiattimento rispetto alla linea
del rigore inutile caldeggiata dai tecnici
del nulla ha causato una conseguente perdita di consenso da parte dei
partiti tradizionali. Inoltre la gente, nonché qualche sparuto drappello di
giornalisti di regime illuminati sulla via di Damasco, ha cominciato a capire
che l’austerità è matematicamente, conti alla mano, una medicina che in tempo
di recessione rischia di uccidere il malato più rapidamente rispetto al normale
decorso della malattia. Il miracolo sta avvenendo insomma.
I
ragionamenti che pubblicamente i redivivi giornalisti e i presunti esperti di economia
snocciolano alla platea silenziosa degli ascoltatori sono quasi sempre gli
stessi: l’austerità, l’aumento delle
tasse riduce la liquidità in circolazione, diminuisce la domanda di beni e
servizi, aumenta la propensione al risparmio, le imprese vendono di meno e sono
costrette a chiudere e a licenziare, si innalza la disoccupazione e si crea
un’ulteriore contrazione dei consumi che peggiora il quadro generale. Se si
percorre la strada opposta del taglio
della spesa pubblica si arriva allo stesso disastro, perché una riduzione
della spesa pubblica comporta ancora una volta una contrazione della liquidità
immessa dal governo nell’economia e una maggiore diminuzione percentuale del
PIL, che in proporzione tende a fare aumentare ancora di più il famigerato
rapporto debito pubblico/PIL, che ormai ha sforato abbondantemente la soglia
del 120%.
La
soluzione più ovvia per invertire la rotta sarebbe una riduzione delle tasse accompagnata
da un contemporaneo aumento o riallocazione della spesa pubblica, trasferendo
parte dei fondi della spesa corrente
destinati ai consumi improduttivi verso la
spesa in conto capitale per
investimenti pluriennali e i sussidi alle imprese, che in qualche modo possono
favorire un rilancio dell’economia. Ma arrivati a questo punto del dibattito,
rispettando un canovaccio ormai consolidato, gli ospiti cominciano a sgranare
regolarmente gli occhi e si solleva quasi sempre un mormorio che sfocia spesso
in aperta contestazione: “Sarebbe una
follia! Ma voi avete presente quanto paghiamo di interessi sul debito pubblico?
Aumentando la spesa, il debito pubblico aumenterebbe e verremmo sommersi dal
pagamento degli interessi, che ormai hanno raggiunto quasi la quota di 100
miliardi all’anno!”.
Da
notare che coloro che avanzano questi furenti ammonimenti contro l’eresia della spesa pubblica sono
spesso i rappresentanti della cosiddetta sinistra
progressista, PD e dintorni, che tradizionalmente dovrebbero avere una
certa predisposizione per favorire un intervento più deciso dello stato nell’economia:
tuttavia siccome viviamo ormai da tempo in un mondo palesemente all’incontrario
e mistificatorio, dove non si capisce mai quale sia il confine fra la realtà e
la farsa, non fa più tanto clamore sentire queste parole in bocca a quelli che
dovrebbero essere i maggiori difensori del popolo e delle fasce più deboli
della popolazione. Dal momento in cui il paladino dei salotti della sinistra radical chic Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica e amico intimo dei
banchieri Carli e Ciampi, ha sdoganato in Italia le meraviglie del libero
mercato e il neoliberismo sfrenato come pensiero unico economico e politico da
seguire alla lettera (nel senso proprio di lettera di istruzioni dei banchieri della BCE Trichet e Draghi ai politici di un presunto stato democratico), appare più che normale che la “sinistra” si schieri contro lo stato, i
lavoratori, i diritti civili dei cittadini e in favore dei grandi detentori di
capitale, imprenditori, banchieri, magnati della finanza internazionale. E’ il
segno dei tempi.
Ad
ogni modo a questo punto il dibattito si arresta davanti un vicolo cieco,
perché in sala non si trova mai nessuno disposto a contraddire i fustigatori
dello stato e della spesa pubblica con dei semplici
ragionamenti, lasciando purtroppo immutato quel senso di sfiducia,
frustrazione e fatalità che ormai da qualche decennio ha contagiato il nostro
paese. Le cose vanno così e devono andare così, perché ciò è scritto nelle
tavole della legge della nuova religione che governa i popoli: l’economia, il
debito, lo spread, i mercati e tutto il resto. Ma vediamo con alcuni passaggi logici come si potrebbe rispondere ai nuovi comandamenti divini dei conservatori e reazionari neoliberisti sia
di destra che di sinistra (differenza ormai soltanto di facciata che viene utilizzata
dai conduttori per fini puramente scenografici), che come vere e proprie orde barbariche invadono i talk show
televisivi.
La
spesa pubblica non deve essere misurata
in valore assoluto, ma tramite gli effetti concreti che produce
nell’economia: come tutti gli strumenti di carattere finanziario, i risultati ottenuti dipendono dal corretto utilizzo
dello strumento e non dalla natura dello strumento in se stesso. In
particolare, possiamo misurare gli effetti di una determinata scelta di spesa
pubblica attraverso l’andamento del PIL, che misura il reddito nazionale. A
prescindere dall’iniziale copertura finanziaria o meno con un equivalente
importo di tasse, se la spesa effettuata dallo stato è efficace produce un
maggiore effetto moltiplicativo del PIL, dei redditi e delle transazioni
finanziarie; di conseguenza la spesa viene già ripagata da questo
stimolo positivo sui mercati perché lo stato potrà raccogliere una maggiore
quantità di entrate fiscali relative al maggiore reddito nazionale, senza
causare alcun aumento del debito pubblico. Il PIL, che sta al denominatore,
aumenta più velocemente della spesa o del debito che stanno al numeratore e
complessivamente la situazione della nazione migliora. Se invece la spesa si
limita soltanto ad interventi
inefficaci, improduttivi e sprechi, allora non facciamo altro che
accelerare i processi recessivi o rischiare di produrre fenomeni inflattivi,
nel caso in cui i livelli di reddito, di domanda e di occupazione siano già
vicini alla saturazione.
Come
viene bene evidenziato dal grafico sotto pubblicato sull’ottimo blog
dell’economista Gustavo Piga, l’andamento
della spesa pubblica nel tempo dipende molto dal corrispondente andamento del
PIL. Nella situazione attuale (linea nera) il rapporto spesa pubblica/PIL
si aggira intorno al 51%, che obiettivamente è un livello molto alto. Ma questa
cifra esorbitante non è dovuta tanto all’aumento in valore assoluto della spesa
pubblica, quanto piuttosto alla caduta disastrosa del PIL dal 2009 ad oggi. In
uno scenario di perfetta stagnazione (linea azzurra: nessuna crescita o decrescita
del PIL=0%), le cose comincerebbero spontaneamente a migliorare verso livelli
meno preoccupanti. Prevedendo invece una modesta crescita del PIL dell’1% (linea rosa), la situazione sarebbe stata ancora migliore, senza fare ricorso a nessun
taglio o aumento della pressione fiscale.
Fra
l’altro, come abbiamo già detto, dobbiamo subito distinguere fra due tipi principali
di spesa pubblica: spesa corrente e spesa in conto capitale. La prima serve
a finanziare i consumi, gli stipendi, le pensioni, i sussidi di disoccupazione
e la seconda invece viene utilizzata per gli investimenti a lunga scadenza e il
sostegno alle imprese, tramite stimoli e agevolazioni fiscali o finanziamenti
diretti. Verificando il rapporto della Corte dei Conti del 23 aprile scorso possiamo notare che in questi ultimi due anni in Italia abbiamo assistito ad un
aumento contenuto della spesa corrente e ad un andamento pressoché costante
della spesa in conto capitale. L’unica cosa che è aumentata davvero è il peso
degli interessi pagati ai soliti banchieri per chiedere un anticipo dei soldi
da spendere, dato che al netto degli interessi l’Italia ha sempre avuto un avanzo primario (entrate fiscali maggiori
delle spese).
Inoltre
balza subito all’occhio la differenza abissale fra il saldo della spesa
corrente (circa 672 miliardi nel 2011) e il saldo della spesa in conto capitale
(circa 48 miliardi sempre nel 2011), che evidenzia come in Italia ormai non si
faccia più una seria programmazione
degli investimenti di medio e lungo periodo, ma si vive soltanto alla
giornata. Cosa saggia sarebbe cercare di spostare una quota della spesa
corrente destinata ai consumi inutili e sperperata negli sprechi per convogliarla
verso gli investimenti produttivi, la ricerca e i sussidi alle imprese, che
fanno girare l’economia in maniera virtuosa e possono creare le premesse per un
aumento del reddito nazionale. Mentre ad occhio e croce, sembra che la tendenza del ragioniere Monti sia quella di utilizzare i finanziamenti europei per operazioni
di marketing
sociale (è molto più facile dare una social card ad un povero che
inserirlo in un qualsiasi circuito lavorativo e consentirgli di uscire dallo
stato di indigenza) e di tagliare indistintamente tutte le fonti di spesa
adottando la spending review per risarcire i prestiti dei suoi sodali della
finanza e bruciare definitivamente risorse utili all’intera collettività.
E
veniamo qui al punto spinoso di tutta la faccenda. Ma perché lo stato italiano deve indebitarsi per spendere dei soldi che
in teoria può benissimo crearsi da solo? Quale specifico diritto di proprietà hanno le banche
sui soldi che vengono dati in prestito allo stato? Ovviamente nessuno e per
spiegarlo ricorriamo ad una breve storiella che viene spesso raccontata per
spiegare il funzionamento dell’attuale sistema
monetario. Un giorno un professore di economia si presenta ad una
conferenza per illustrare alcune ricerche sul debito, la moneta e il sistema
finanziario moderno. Il professore mostra tabelle, grafici, numeri che
evidenziano come il debito pubblico sia una grandezza sempre in continuo
aumento a causa del regime di interessi composti applicati sui prestiti e dell’impossibilità
di garantire una crescita economica che abbia lo stesso andamento esponenziale.
Per tutto il tempo della conferenza, passeggiando avanti e indietro per il
palco, il professore indossa un guanto bianco alla mano destra, che desta
l’attenzione del pubblico, perché ogni tanto, durante i suoi discorsi, il
professore si ferma per fissare la mano coperta dal guanto bianco oppure la
agita per mostrarla al pubblico.
Finito
il convegno, dal fondo della sala una persona si alza per fare una domanda: “Professore mi scusi ma perché indossa quel
guanto bianco?” Il professore sorride e sfilandosi il guanto e mostrando la
mano al pubblico risponde: “Ah,
dimenticavo. Di tutto quel debito di cui abbiamo parlato, questo è il nostro
principale creditore: una mano”. Una mano.
Oggi come oggi infatti ciò che fa davvero la differenza fra il creditore e il debitore è la mano di colui
che pigia i tasti di un computer. Se la mano appartiene ad un funzionario
di una banca centrale o di una banca privata, la cifra che appare sul computer
diventa automaticamente un credito, se invece questa mano appartiene ad un
funzionario dello stato o ad un normale cittadino, quella stessa cifra è un
debito. Questo modo di veicolare e organizzare i flussi finanziari è una scelta politica e non economica,
perché non esiste alcun vero vantaggio o beneficio generale a gestire i
processi monetari in tale maniera (a parte i profitti di quella minoranza di
detentori di ricchezza che specula sul fatto che il beneficiario sia privato e
il pagatore sia sempre pubblico).
Se
verifichiamo attentamente la situazione attuale dell’Italia all’interno
dell’eurozona possiamo subito rilevare il seguente schema che si ripete
all’infinito: il funzionario della BCE,
banca centrale privata, autonoma e assolutamente indipendente, crea soldi dal
nulla pigiando i tasti di un computer e trasferisce questa cifra in prestito al
funzionario della banca privata, che
a sua volta invia la cifra sotto forma di prestito al funzionario del ministero delle finanze, che scrive sempre la
stessa cifra fra le passività e i debiti dello stato, che dovranno essere
pagati dai cittadini tramite la
riscossione delle tasse. E’ soltanto una “questione
di mani” come cantava Zucchero qualche tempo fa, perché dal 1971 in poi, con l’inizio del regime fiat
money e la fine del regime di convertibilità dei soldi in oro, non c’è
più alcun valore di scambio o ricchezza specifica che giustifica la posizione
dominante del creditore che ha la possibilità di creare denaro dal nulla rispetto
al debitore che è costretto ad accettare forzosamente quel denaro come unica
tipologia di moneta a corso legale.
Il
creditore è soltanto colui a cui è stata arbitrariamente concessa, in modo
subdolo e truffaldino, questa capacità di creare soldi dal nulla, mentre il
debitore è la massa dei poveri ignari cittadini e lavoratori, a cui i funzionari di stato collusi, i professori asserviti e i giornalisti compiacenti fanno ancora
credere di essere indebitati. In realtà i cittadini non sono indebitati con
niente e con nessuno, ma si tratta esclusivamente di una scellerata illusione ottica, una stregoneria frutto di una precisa strategia
di sopraffazione tramata da tempo da una striminzita casta di oligarchi, plutocrati e banchieri, a cui tutti i partiti
politici nazionali hanno sempre fornito insindacabile
legittimazione parlamentare. Nelle segrete stanze è stato deciso che deve
essere così, perché se il popolo dovesse un giorno capire e riappropriarsi del
potere di creare soldi dal nulla, ciò che viene indicato spesso come sovranità monetaria ma che in realtà ha
un significato molto più ampio, la classe degli oligarchi perderebbe il
principale strumento su cui si basa tutta la violenta campagna di repressione,
terrore e schiavizzazione delle masse.
Una
volta riconquistato dai cittadini, tramite lo stato, questo più che legittimo diritto di emissione del denaro,
tutti i discorsi sulla spesa e il debito pubblico potrebbero essere
semplificati e ridotti alla loro reale essenza e utilità: il debito pubblico come parola e categoria
dello spirito verrebbe definitivamente cancellato e la spesa pubblica diventerebbe un semplice strumento finanziario da
utilizzare al pari di altri e in linea con i principali andamenti dell’economia
(occupazione, inflazione, sviluppo
sostenibile). Se questi metodi di monitoraggio e analisi dei processi
economici funzionano bene a livello privato non si capisce perché passando in mano
pubblica dovrebbero improvvisamente andare fuori controllo: in fondo si
tratterebbe delle stesse competenze, delle stesse persone, degli stessi
funzionari, a cui viene cambiato soltanto il datore di lavoro (a meno che
qualcuno non dimostri tramite seri e affidabili studi scientifici che un
impiegato privato che passa a lavorare alle dipendenze dell’amministrazione
pubblica per svolgere le stesse mansioni diventa automaticamente più stupido,
incapace e svogliato).
Fra
l’altro i cittadini hanno il diritto e dovere sacrosanto di rovesciare il
tavolo e di riappropriarsi della propria moneta, togliendola dalle grinfie dei
banchieri privati, per un semplice motivo: sono gli unici che danno davvero
valore ai soldi creati dal nulla in regime fiat money perché fin dalla nascita
rispettano diligentemente il corso legale della moneta, che come sappiamo obbliga
ogni cittadino ad accettare questi soldi come forma di pagamento dello stato nei suoi confronti e a pagare le tasse allo stato utilizzando quegli stessi soldi. Senza
questa doppia prova del fuoco, che passa sempre attraverso la scelta volontaria
dei cittadini sovrani di uno stato democratico, nessuna moneta nazionale
potrebbe avere sufficiente domanda e diffusione e si tornerebbe al regime
feudale, che assegnava il potere di emissione della moneta ai signorotti e
principi locali.
Dopo
aver ridato finalmente significato e sostanza ad una parola oggi più che mai
vuota e inappropriata come democrazia,
riconsegnando il diritto di emissione dal nulla del denaro ai legittimi
proprietari che sono appunto i cittadini, il problema della spesa pubblica potrebbe essere risolto
seguendo alcuni semplici passi ed evitando soprattutto di creare di nuovo
equivoci, fraintendimenti e confusione fra la gente:
1) La banca
centrale pubblica decide periodicamente, a cadenza preferibilmente mensile,
la quantità di nuova moneta da
accreditare sul conto dello stato, basando la sua scelta sull’andamento
delle principali grandezze macroeconomiche monitorate (disoccupazione, inflazione,
PIL) e senza ricorrere all’emissione di titoli di stato o alla creazione di
alcun debito: un debito che sia tale si forma quando qualcuno non ha
attualmente le risorse necessarie per fare qualcosa (debito di ossigeno, debito
scolastico, debito finanziario etc), ma nel caso specifico, a meno di
catastrofici black out elettrici che
impediscono il funzionamento dei computer, lo stato tramite la sua banca centrale
non può essere mai privo della capacità di creare soldi dal nulla da spendere
nell’economia, rendendo efficace le sue manovre di politica fiscale.
2) Sempre in ambito di politica fiscale, la disciplina
del pareggio di bilancio potrebbe
essere mantenuta, con una certa flessibilità e tenendo conto del ciclo
economico (espansione o recessione), per garantire stabilità finanziaria ed
equilibrio fra la spesa corrente e
le entrate fiscali, mentre
dovrebbero essere gestite fuori bilancio tutte le spese in conto capitale che
prevedono nuovi investimenti a medio e lungo termine, soprattutto nel campo
della ricerca, dell’innovazione, dello sviluppo sostenibile, e la creazione di
una maggiore offerta di beni e servizi, che con un proporzionale e progressivo aumento
dell’occupazione e della domanda interna, avrebbero scarso effetto sull’inflazione.
3) La banca
centrale pubblica può continuare ad emettere per conto suo titoli di stato denominati in valuta
nazionale, privi di rischio e sempre rimborsabili da vendere nel settore privato
nei casi in cui diventa necessario drenare
liquidità dai mercati finanziari e da riacquistare quando invece serve immettere nuova liquidità nell’economia.
Questa attività rappresenta una semplice operazione di politica monetaria e di redistribuzione di reddito nel settore privato
(l’interesse sui titoli) che non dovrebbe più rientrare nel bilancio dello stato,
perché ancora una volta non risulta un debito della banca centrale nei confronti
del settore privato, ma solamente uno scambio di titoli per liquidità e viceversa.
Game over. Gioco
finito. La farsa e la commedia che attualmente viene recitata a soggetto da tutti
i manovratori dell’opinione pubblica (politici, giornalisti, intellettuali di
vario genere) avrebbe finalmente la sua degna conclusione e si calerebbe il sipario
su uno dei periodi più oscuri e
regressivi dell’intera civiltà umana: la fase dell’homo debitus che è l’ultimo stadio di involuzione dell’homo oeconomicus, dopo la parentesi
fortunata che dall’homo erectus aveva
portato all’homo sapiens. Per terminare
in bellezza questa breve storia di riscatto dell’uomo sui numeri, si potrebbe anche
eliminare dalla scena quell’altra scempiaggine del regime della riserva frazionaria che consente alle banche private
di creare soldi dal nulla ogni volta che aprono un prestito nei confronti di un
cliente, inserendo un ultimo passaggio:
4) I clienti delle banche dovrebbero comunicare in
anticipo se intendono solamente depositare
i propri soldi oppure utilizzare una
parte dei risparmi per consentire alle banche di investirli come impieghi e
prestiti. In questo modo le banche tornerebbero al loro ruolo originario di
semplici intermediari del credito, in un regime di riserva frazionaria del 100%, e nessuno, a parte la banca centrale
dello stato, avrebbe la possibilità di creare nuova moneta dal nulla, favorendo
l’insorgenza di eventuali fenomeni inflazionistici o bolle speculative.
Tutto ciò che va oltre questi quattro pilastri
fondamentali di una futura, provvidenziale riforma
monetaria può essere utile come contorno ma non cambia minimamente la
sostanza della realtà che stiamo vivendo e che dobbiamo affrontare. Si tratta
in pratica di mettere a punto semplici
norme di buon senso, perché i problemi attuali sono complessi non per la
loro reale natura ma perché sono stati volutamente complicati e ingarbugliati
dalle solite élite dominanti per tenere lontano dalla definitiva comprensione e
dalla ricerca delle soluzioni il maggior numero di persone possibile.
Una volta
eliminato il debito pubblico quale fattore su cui fare ruotare tutte le
decisioni di politica economica e fiscale, le due migliori cartine di tornasole
per capire quanto efficace sia l’azione di un governo e di un’economia nel suo
complesso diventano il valore
dell’inflazione interna e il saldo
della bilancia dei pagamenti con l’estero: da questi dati, da tenere
continuamente sotto controllo, e non da altri bisognerebbe sempre partire per
misurare la capacità e il merito di un’intera classe dirigente, perché la forza
di una moneta, il mantenimento del suo potere d’acquisto e la stabilità di
cambio con le monete estere (equilibrio dinamico fra svalutazioni e
rivalutazioni successive, ridotto tasso di indebitamento/accreditamento con l’estero)
rappresentano univocamente la vera forza di una nazione e di un popolo. Ma se l’inflazione e il debito estero sono i principali
indicatori della salute interna ed esterna di una nazione, l’obiettivo
principale di una seria politica fiscale dovrebbe essere quello di riportare costantemente l’economia
al servizio dell’uomo: il fine ultimo di uno stato democratico o che ambisce a
diventare tale dovrebbe essere innanzitutto la piena occupazione e la garanzia di benessere, tutela e assistenza
estesa a tutti i cittadini. Sarà utopistico come proposito, ma in mancanza di
questa utopia la democrazia non ha
più senso di esistere e dovremo bene o male accontentarci di una forma più o meno
blanda di dittatura (finanziaria, monetaria, mercantilista e in casi estremi anche
militare).
Fino a quando però la propaganda di regime continuerà
a martellare nella testa della gente paure inesistenti come quelle del debito pubblico e dell’inflazione, possiamo purtroppo fare ben poco e dobbiamo sorbirci
lezioni di economia da gente davvero improbabile. Come quest’ultimo blogger,
tale Fabio Scacciavillani di professione
consulente finanziario di un fondo di investimento dell’Oman, assoldato dal giornale
indipendente (?) Il Fatto Quotidiano in qualità di economista (siamo sempre lì:
dire che un agente finanziario è un economista è come dire che un giocatore
d’azzardo e biscazziere è un sociologo), per farfugliare dopo una spiegazione
quanto mai inverosimile sul significato della moneta (confonde le variabili di
stock, il patrimonio e le ricchezze immobiliari, con le variabili di flusso, le
transazioni finanziarie) delle scemenze incredibili come queste:
“Per eliminare questa
tentazione (del politico che stampa moneta…) la decisione su quanta moneta mettere
in circolazione è affidata alla Banca centrale, un’istituzione
pubblica, non sottoposta agli ordini diretti del governo. Non è un’anomalia.
Per esempio onde evitare che un ministro nottetempo trasferisca la proprietà di
terreni a sodali e parenti, il catasto è indipendente dal potere politico.
Analogamente le maggiori banche centrali dopo il 1971 sono state rese indipendenti
dai politici nell’implementazione della politica monetaria.
Spero che questa sintetica
esposizione sia
utile per capire meglio cosa si cela dietro le
diatribe sulla monetizzazione ad oltranza del debito pubblico,
il ruolo della Bce, i presunti benefici che deriverebbero dallo stampare moneta
all’infinito. Una volta distrutto un sistema informativo complesso è molto
oneroso e penoso ristabilirlo, come hanno scoperto in Zimbabwe. In buona
sostanza una moneta svalutata è un sistema informativo scadente di cui
gioiscono gli ebeti perché crea l’effimera impressione di riempire i
portafogli, ma a lungo andare non riempie la pancia.”
Forse il signor
Scacciavillani non sa che tutte le normali banche
centrali del mondo di stati sovrani (Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone,
Svezia…tutti tranne l’eurozona insomma) sono già “dipendenti” dal governo
nazionale, che può chiedere alla banca centrale di monetizzare su richiesta tutto il debito e il disavanzo pubblico che vuole. Eppure, nonostante ciò, negli
ultimi anni non abbiamo mai assistito in questi paesi a fenomeni
iperinflazionistici come quelli dello Zimbabwe e della Repubblica di Weimar:
chissà come mai? Forse perché le nazioni più moderne e sviluppate possono
utilizzare metodi di monetizzazione, informazione e controllo più sofisticati
di quello di uno stato africano e o di una nazione dei primi del novecento
indebitata fino al collo? Forse perché l’inflazione, ovvero l’aumento dei
prezzi al consumo, non dipende soltanto dalla quantità di soldi spesi dallo
stato, ma anche dall’offerta e dalla domanda complessiva di beni e servizi? Forse
perché la quantità di moneta circolante viene determinata solo in minima parte dalla
spesa pubblica dello stato, essendo soprattutto influenzata dall’attività
creditizia delle banche commerciali?
Fra l’altro il
consulente finanziario, distratto forse dagli spread sui titoli sui quali oggi
costruisce le sue fortune, confonde il concetto di “decisione della quantità”
con quello di “proprietà” della moneta: non si capisce infatti per quale
motivo l’istituzione privata o pubblica che sia, alla quale è stato assegnato
il compito di decidere quanta moneta mettere in circolazione, debba per questo
motivo arrogarsi il diritto di proprietà di quella stessa moneta, dandola in
prestito agli stati. Considerando l’elevato livello di aleatorietà ed approssimazione incluso nella scelta
della perfetta quantità di moneta da creare (ricordiamo che l’economia non è
una scienza esatta, quindi qualsiasi tentativo di stabilire un limite quantitativo ad un valore economico
o finanziario risulta spesso molto più simile ad un azzardo, una sommessa, o al
vaticinio di un oracolo), è come se la fattucchiera che ha previsto che noi domani
vinceremo alla lotteria un milione di euro pretendesse di essere pagata con un
milione di euro più gli interessi: è chiaro invece che noi corrisponderemo alla
fattucchiera il compenso dovuto per la sua prestazione, così come al
funzionario della banca centrale pagheremo lo stipendio mensile, a prescindere
che abbia azzeccato o meno la sua previsione sulla quantità corretta di moneta
da creare.
In un contesto
mondiale in cui la banca centrale dipende strettamente dal governo (anche se
permane l’abitudine puramente convenzionale e simbolica di indicare i loro
rapporti finanziari sotto forma di debiti e crediti), la vera anomalia quindi è proprio la BCE, che arroccandosi dietro
questa cortina di fumo dell’autonomia e
dell’indipendenza, impedisce ai governi di espletare le normali funzioni di
amministrazione della cosa pubblica, senza doversi ogni volta indebitare con
banche, speculatori finanziari o fondi di investimento dell’Oman. D’altronde
cosa volevamo aspettarci da un consulente mercenario al soldo di una società
finanziaria straniera, che magari proprio in questi mesi si sta arricchendo
nella compravendita speculativa di titoli di stato italiani volatili e ad alto
rendimento, senza provare mai un solo scrupolo di coscienza, senza riflettere
minimamente sulla sofferenza ingiusta e i patimenti evitabili subiti dai suoi
stessi connazionali.
Volevamo forse aspettarci
la verità? Il buon senso?
L’obiettività? Il signor Scacciavillani ha trovato la manna caduta dal cielo e sta tirando acqua al suo mulino e soprattutto
ha trovato qualcuno di una testata giornalistica a diffusione nazionale disposto
a dargli visibilità e risonanza, il quale infischiandosene di fornire al pubblico
un buon servizio di informazione (privo innanzitutto di quel conflitto di interessi che tanto osteggiano in altri ambiti e settori) finisce quasi sempre per assecondare stranamente
quelli che stanno dalla parte forte del
creditore e mai sul versante debole
del debitore. Niente di nuovo sotto il sole insomma.
Il sig. Scacciavillani di recente si è messo a fare anche del terrorismo psicologico (http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/06/24/altro-che-euro-arrivano-le-bungalire/273275/), tanto per non smentirsi.
RispondiElimina