Pubblico
oggi un articolo davvero molto interessante e ben scritto comparso sul sito
Inchiesta on Line, che affronta le due maggiori innovazioni finanziarie che
hanno trasformato e continuano a condizionare, purtroppo in peggio, la vita
economica di ogni nazione: la cartolarizzazione,
ovvero la vendita di titoli legati ai prestiti già concessi e l’introduzione
dei derivati, che rappresentano
delle vere e proprie scommesse su eventi futuri che finiscono spesso per cambiare
l’evoluzione dell’evento stesso.
In
occasione della presentazione del suo libro “Finanzcapitalismo”, l’autore Luciano
Gallino esamina con una chiarezza
espositiva davvero encomiabile i fenomeni di cambiamento che sono tuttora in
corso nell’ingarbugliato mondo finanziario e propone alla fine dell’articolo
alcune strade da seguire per iniziare un serio processo di regolamentazione della finanza, che non si limiti soltanto a slogan
o proposte propagandistiche che si concludono spesso in un mantenimento ad
oltranza della situazione attuale ampiamente fuori controllo. Consiglio la
lettura a chiunque sia interessato a capire come funziona e cosa sta accadendo
oggi nel mondo della grande finanza.
Di
Luciano Gallino
Sono
grato agli organizzatori, in particolare a Gianni Rinaldini, per avermi dato modo
di discutere con un pubblico qualificato alcuni temi della crisi economica in
corso. Comincerei suggerendo di prender nota di una frase, pronunciata da un personaggio
autorevole, che per noi oggi è molto attuale: «D’ora innanzi regneranno i
banchieri». Si può essere d’accordo. Oggi effettivamente i banchieri
dominano la politica nel mondo, non perché abbiano sopraffatto la politica, ma
perché la politica ha aperto loro le porte.
Questa
frase è stata pronunciata da un banchiere francese, Jacques Laffitte,
alla fine della Rivoluzione di Luglio del 1830, mentre stava accompagnando il
duca d’Orléans in trionfo all’Hôtel de Ville. Abbiamo pertanto a che fare con
una questione che non ha fatto che ingrandirsi con il tempo, sebbene, va ricordato,
nel corso del Novecento ad essa sia stato posto rimedio (sia pure per un breve
periodo): il New Deal rooseveltiano fu in primo luogo un riuscito
imbrigliamento della finanza, la cui sregolatezza aveva provocato la crisi del
1929. Un segno del fatto che la politica, oltre ad aprire le porte alla
finanza, quando vuole riesce anche a chiuderle.
Alla luce
di queste opposte considerazioni toccherò quattro-cinque punti, traendoli dal
mio ultimo libro Finanzcapitalismo.
Per prima
cosa, la crisi ha uno dei suoi punti di origine nella creazione smodata di
denaro da parte delle banche private. Lo
hanno fatto anche le banche centrali e nazionali, ma sono state soprattutto le
banche private che hanno creato un’immensa quantità di denaro dal nulla.
La crisi
– secondo punto – è nata dalla cosiddetta «finanza ombra», vale a dire dai flussi finanziari di capitale che
circolano al di fuori della pur modesta presa dei regolatori, ossia dell’autorità
di vigilanza.
Terzo
punto fondamentale, nel preparare e nel far esplodere la crisi, non gestendola
e lasciandola inasprire fino a oggi, hanno avuto un ruolo fondamentale la
politica, le leggi, le norme che sono state varate per liberalizzare sia i movimenti
di capitale sia la creazione di denaro in nuove forme. In questo quadro che ha visto la politica
spalancare le porte alla finanza hanno svolto un ruolo centrale l’Europa, i
suoi politici e le sue banche.
Il punto
finale lo riassumerei così: sarebbe indispensabile una riforma radicale del
sistema finanziario, di cui parlano in molti oggi, ma di fatto mancano sia la
volontà politica sia la capacità da parte dei politici di comprendere quale
enorme problema abbiamo dinanzi, per cui le riforme di cui si parla anche nella
Ue sono del tutto inadeguate. Ora,
senza una riforma radicale del sistema finanziario, che dovrebbe essere il
primo obiettivo dell’Unione Europea, visto che di lì nascono i suoi guai, le
cose andranno sempre peggio sul fronte del lavoro, dell’economia, dello
sviluppo, dello stato sociale.
Partiamo
dal primo punto: l’incredibile creazione di denaro che ha avuto luogo soprattutto
negli anni 2000, sebbene fosse cominciata assai prima. Le banche private
creano denaro dal nulla ogni volta che concedono prestiti. Molti pensano e
sembrano dare per scontato – e fra questi, a volte, anche i commentatori in
materie economiche che pur dovrebbero saperne qualcosa di più –che le banche
raccolgano depositi (piccoli, medi, grandi) e sulla base di questi concedano
dei prestiti alle imprese, alle famiglie, ai lavoratori. Non è affatto così:
una grandissima parte del denaro viene creato dalle banche dal nulla attraverso
il credito. Una volta si parlava di denaro scritturale perché veniva
scritta in un libro dei conti, in una partita doppia, la somma prestata a Tizio
o a Caio; oggi il denaro si crea con alcuni tocchi sulla tastiera. Una certa
quantità di denaro viene ancora creata dalle banche centrali, in forma di
prestiti e di denaro contante – monete o banconote, gli unici oggetti per i
quali si applichi ancora la dizione «stampare denaro» – ma quest’ultimo rappresenta
meno del 3 per cento del denaro oggi in circolazione.
È stata
una modifica di grande portata. Basti pensare che ancora negli anni Cinquanta e
Sessanta monete e banconote rappresentavano il quaranta per cento e più, a
seconda dei paesi, del denaro circolante, mentre oggi in tutti i paesi sviluppati
siamo intorno al tre per cento o meno. Forse un dieci per cento del denaro in
circolazione è creato dalle banche centrali, compresa la Banca Centrale
Europea. A questo proposito bisogna tener conto che vi sono diversi tipi di
denaro: c’è il denaro cash, il contante, il denaro dei depositi, che vale più o
meno lo stesso, e poi i prestiti o i risparmi vincolati a tre mesi, i risparmi
vincolati a due anni, le obbligazioni, i tanti titoli inventati dalla finanza.
Come
hanno fatto le banche a partire degli anni Novanta e poi con una fortissima
accelerazione negli anni Duemila a creare denaro senza limiti? Hanno utilizzato
uno strumento micidiale che si chiama cartolarizzazione o titolarizzazione
(dall’inglese titrisation o securitisation). Esso consiste nella trasformazione di attivi che figurano nel bilancio
di una banca in titoli che si possono commerciare, rivendere, comprare. Il
denaro viene creato concedendo un prestito: qualcuno, ad esempio, chiede un
mutuo; questo prestito diventa un attivo (registrato sulla parte sinistra del bilancio
che riguarda gli attivi) e si trasforma in un debito verso la banca da parte di
quello che ha avuto il prestito. Le banche hanno inventato secoli fa questo
particolare modo di creare denaro, ma dagli anni 90 in poi ne hanno fatto un
uso eccessivo.
Che cosa
è avvenuto? Quando
un prestito viene concesso figura tra gli attivi di una banca (una banca
percepisce gli interessi), ma quel capitale è immobilizzato. Inoltre, la banca
stessa è soggetta a vincoli, che derivano dalle normative della banca centrale
e dalle regole stabilite dagli accordi di Basilea 1 e 2, già da tempo operativi,
e dal nuovo accordo Basilea 3 non ancora pienamente in vigore. Sulla base di
questi vincoli le banche devono tenere di riserva dei capitali buoni per una
certa quota rispetto a ciò che prestano.
Le norme
di Basilea 2 stabiliscono che una banca dovrebbe tenere di riserva e depositare
presso la banca centrale, la BCE nel caso dell’Eurozona, l’8 per cento di
quello che presta, vale a dire che per ogni 100 Euro che presta deve depositarne
8 in riserva. Se i prestiti sono tanti, i capitali da depositare in riserva
crescono e una banca a un certo punto non è più in grado di effettuare altri
prestiti. Il fatto è che concedere prestiti rende molto, sotto forma di
interessi, commissioni, spese amministrative, consulenze, plusvalenze e altro.
Ecco
allora il colpo di genio.
Sviluppando un’invenzione di parecchi anni addietro, esso è consistito nel
trasformare il prestito in titoli commerciali, in titoli cioè che possono
andare sul mercato. Quindi, quello che è avvenuto con sempre maggiore ampiezza
nei primi anni 2000 è stato che il prestito veniva concesso e poi il titolo di
debito, sovente una ipoteca, era ceduto quasi subito a una società di scopo, in
molti casi istituita dalla stessa banca.
La sigla
più nota per designare tali società è SIV (Structured Investment Vehicle)
che sta per «Veicoli di Investimento Strutturato». Altrettanto rapidamente il
Siv trasformava dei pacchi di titoli in un supertitolo commerciabile che
immetteva sul mercato finanziario. Cedendo il prestito ad un veicolo, magari da
essa stessa creato e in molti casi collocato nelle isole Cayman o in altri
paradisi fiscali, la banca otteneva innanzitutto di recuperare il capitale
immobilizzato in attesa della scadenza, ma soprattutto otteneva che quel
prestito sparisse dal bilancio, poiché esso veniva legalmente venduto (anche se
sulla effettività della vendita si possono avere dei dubbi) al veicolo da essa
stessa creato, cioè alla società di scopo.
Quello
spazio creato dal prestito, che diventava un titolo uscito dal bilancio, permetteva
alla banca di creare nuovo denaro concedendo altri prestiti. Ciò si può fare
per un primo prestito, per il secondo, il terzo, il decimo e via dicendo.
Esattamente in questo modo sono stati creati migliaia di miliardi di dollari e
di euro nei primi anni 2000, ma nell’agosto del 2007 scoppia la crisi e il
processo di cartolarizzazione rallenta.
Questo
tipo di processo è anche alla radice della questione dei mutui facili. Infatti nel fervore di creare sempre nuovo
denaro, ossia di concedere sempre nuovi prestiti per poi rimuoverli dal
bilancio, le banche e i numerosi enti coinvolti nel processo – in cui entrano
non solo banche ma pure compagnie di assicurazione, enti specializzati nel
concedere mutui, società di ri-assicurazione dei medesimi, fondi speculativi –
hanno guardato sempre meno alle qualità del creditore, preferendo non solo
ignorare quanto il creditore guadagnasse o a quanto ammontasse il suo
patrimonio, ma addirittura evitando accuratamente che il creditore stesso si
ponesse il problema di potersi o meno permettere il prestito. In pratica, sono
stati venduti quasi a forza milioni di crediti, in prevalenza mutui per la
casa, ma anche prestiti per gli studenti, mutui per comprare automobili o
affittare un magazzino, tutti ipotecari, e il mutuo, ovvero l’ipoteca su di
esso o a esso collegato, era trasformato in un titolo che rendeva subito,
intanto perché era venduto, poi perché continuava a rendere permettendo di
concederne molti altri.
In questo
modo le banche – che negli Stati Uniti, ricordo, dovevano avere in riserva
presso la FED dieci dollari ogni cento che prestavano – operavano con un
effetto leva apparente intorno a uno a dieci, e uno effettivo che superava uno
a trenta. Da secoli questo 1:10 è più o meno il tasso a cui le banche operano,
nel senso che fin dell’epoca dei banchi degli orefici – che avevano un caveau
di roccia o di ferro in cui depositivano l’oro dei propri clienti – con la
diffusione dei titoli di credito e di altri titoli scritturali l’attività
bancaria si è sempre fondata sul presupposto che è quasi impossibile che tutti
i clienti corrano nello stesso momento agli sportelli e ritirino i loro
depositi.
Quindi le
banche hanno cominciato a prestare e tutt’ora prestano soldi che non hanno. E
l’ipotesi è sempre stata che intorno a uno a dieci o poco più fosse un effetto
leva ragionevole. Spostando i mutui, le ipoteche, i titoli da un’altra parte e
facendoli sparire dal bilancio, l’effetto leva è diventato uno a quindici, uno
a venti, uno a trentadue, che è considerato il valore medio prevalente tra le
banche quando esplode la crisi nell’estate del 2007. Ma c’erano allora istituti
finanziari, come ricordo nel mio libro, che avevano un effetto leva di uno a
ottanta, perfino di uno a cento, il che significa che su un dollaro di soldi
propri gravavano 99 dollari di debiti.
Quindi
quello a cui stiamo assistendo oggi è per certi aspetti un immenso processo di
deleveraggio, ovvero di smontaggio dell’effetto leva, di banche che erano
solite operare con rapporti di uno a trenta e più tra capitali propri e debiti,
e adesso cercano di ridiscendere a uno a venti, uno a dieci (guarda sotto grafico dove si vede che la banca francese Societe Generale ha raggiunto livelli di leva finanziaria e indebitamento di quasi 50 volte il capitale proprio per finanziare gli investimenti e i prestiti).
Questo
però è solo una parte del processo di creazione del denaro, perché le banche
hanno fatto di più e di peggio. Ormai i
grandi gruppi finanziari sono società che ne controllano centinaia di altre,
tra cui banche di diverso tipo (dalle banche d’investimento alle banche
commerciali), istituti specializzati in ipoteche, casse di risparmio, compagnie
di assicurazione, società specializzate nelle re-ipotecazione di ipoteche e
altro. I grandi gruppi finanziari, oltre a creare trilioni di dollari o di euro
concedendo prestiti sulla casa, sull’auto o sullo stabilimento, concedendo
prestiti a famiglie e imprese e ingigantendo questa quantità di denaro mediante
la cartolarizzazione, hanno anche creato altre montagne di denaro moltiplicando
i cosidetti derivati.
I
derivati sono nati almeno un secolo e mezzo fa e forse prima, agli inizi
dell’Ottocento. Erano onesti e pratici, chiamiamoli così, titoli assicurativi.
L’agricoltore, ad esempio, che a gennaio non sapeva come sarebbe andato il raccolto
di grano a giugno, aveva interesse a prefissare un certo prezzo di vendita del
suo grano. Il mercante, che non sapeva a sua volta come sarebbe andato il
prezzo – a causa delle carestie eventualmente intervenute, delle intemperie,
dei parassiti –, aveva interesse a stabilire che a luglio avrebbe comprato a un
determinato prezzo una certa quantità di grano. Allora, a gennaio, i due
firmavano un contratto che assicurava al contadino e al mercante un determinato
prezzo. È chiaro che poi a giugno era difficile che fossero in pari: uno dei
due, rispetto al mercato, ci perdeva o ci guadagnava. Ma quel contratto era uno
strumento efficace per garantirsi una certa serenità in merito al prezzo di
acquisto per il mercante e di vendita per l’agricoltore.
Nel corso
del Novecento, ma soprattutto dopo gli anni Novanta, la produzione di derivati
è semplicemente impazzita. I
motivi sono vari. Anzitutto i sottostanti sono diventati migliaia. Possono
essere indici di borsa o eventi sportivi, prezzo degli alimenti di base o
fenomeni meteorologici. Il problema principale risiede nel fatto che è
caduto l’obbligo di possedere o di acquistare la merce – il cosiddetto
sottostante – su cui si basa il valore del derivato. I derivati sono quindi
diventati delle pure scommesse.
Uno può
scommettere sull’andamente del prezzo del petrolio, ossia può comprare un
derivato avente il petrolio come sottostante, senza avere alcun interesse a
commerciare in tale materia prima. Il derivato può riferirsi, per dire, a
diecimila barili di petrolio, ma le due controparti non si impegnano a
comperare o a vendere il sottostante, quanto ad accollarsi la differenza
positiva o negativa del prezzo che maturerà tra sei mesi o un anno, posto che i
derivati possono avere scadenze anche piuttosto lunghe. La parte cosiddetta
venditrice non ha nulla da vendere e la parte acquirente non si sogna di
acquistare non diciamo diecimila barili di petrolio, ma nemmeno uno. È
unicamente una scommessa. Moltiplicando il numero di scommesse, se uno si
assume dei rischi, si può guadagnare o perdere molto.
Quel che
è successo è che nel 2007/2008 il valore nominale dei derivati che giravano per
il mondo – cioè il valore scritto nei contratti – si aggirava su poco meno di
settecentocinquanta trilioni di dollari. Il PIL globale nel 2007 è stato di 57
trilioni di dollari, quindi i derivati in circolazione equivalevano a più di
dodici volte il PIL del mondo.
Qui
bisognerebbe entrare in alcune tecnicalità, per precisare che il PIL nominale è
in genere più alto del valore effettivo del contratto. Nel 2009, ad esempio,
700 trilioni nominali di derivati valevano sul mercato circa 35 – 38 trilioni
di dollari. Però ci sono delle distinzioni da fare, perché un conto sono i
derivati sui barili di petrolio che nessuno compra e nessuno vende; un conto
ben diverso sono i derivati del credito che sono delle specie di assicurazioni
per proteggersi dal rischio di insolvenza di un creditore. La banca A paga una
commissione a B (che in molti casi è un’altra banca) la quale assicura che se C
non ripagherà il debito contratto verso A provvederà lei a rifondere
quest’ultima. In questo caso il valore reale del titolo è molto vicino al
valore nominale perché se la banca debitrice (o altro debitore) non paga, B che
ha sottoscritto quel derivato deve pagare di tasca sua l’intero valore scritto
nel contratto.
In
sostanza, oltre ad aver creato moltissimo denaro concedendo crediti a fiumi, ad
averne creato dell’altro cartolarizzando le ipoteche sì da poter continuare a
concedere prestiti, le banche americane ed europee hanno messo in circolazione
nell’economia sotto forma di derivati un volume di denaro corrispondente a
dodici volte il PIL del mondo.
Qualcuno
dice: «Ma non è veramente denaro». Bisogna invece sottolineare che all’epoca
dei computer, delle transazioni ad alta frequenza, della massima e istantanea
convertibilità di ogni capitale in qualsiasi altra forma, i derivati funzionano
come vero e proprio denaro. Un economista, oggi citato spesso per ragioni sbagliate,
Marvin Minsky, aveva intravisto questo sviluppo già a metà degli anni
Ottanta. Allorché qualunque titolo è istantaneamente convertibile in denaro,
quello è come se fosse denaro. Il problema con i derivati è che più dell’80 per
cento di essi sono scambiati direttamente fra privati – “al banco”, come si
dice – senza che i regolatori possano esercitare alcun controllo. Si tratta di
un’enorme quantità di denaro che sfugge completamente non soltanto alla presa,
ma pure alla vista dei regolatori.
A un certo
punto questa montagna di denaro ha cominciato a cascare sulla testa delle
banche sotto forma di debiti inevasi. Se una
banca scopre una falla nella catena di debiti che essa stessa ha contribuito a
creare, tipo un suo veicolo che avrebbe dovuto vendere agli investitori i
titoli derivanti da una cartolarizzazione ma non ci riesce più perché quelli li
rifiutano; a questo punto, anche se la banca aveva venduto a quel veicolo i
suoi titoli, in qualche modo deve far fronte alle perdite del medesimo. Può
avere un bisogno urgentissimo di qualche centinaio di milioni o magari di un
miliardo di dollari o di euro, ma se la banca di fronte (la banca consorella,
la banca con cui si avevano comuni rapporti) ha gli stessi problemi, il tutto
si incaglia. È quello che è avvenuto nel 2008, ma che si ripropone fino ad oggi
attraverso infiniti canali di contagio.
Nel
generare questo incredibile processo – scrivendo il libro ho speso mesi per
verificare i dati, tanto mi parevano fuori del mondo – rilevantissimo è stato
il peso dei politici e delle banche europee, all’incirca dal 1980 a oggi.
Alcune
leggi determinanti per la deregolazione dei movimenti di capitale sono state
firmate da un Presidente francese socialista, François Mitterand; per
esser poi propugnate, sollecitate e messe in opera dal primo Presidente della
Commissione europea, anche’egli francese e socialista, Jacques Delors.
Tutti costoro avevano, certo, delle buone ragioni: i capitali scappavano e
bisognava far qualcosa. Fatto sta che imponenti misure di deregolazione o
cancellazione della sorveglianza sui movimenti finanziari, compresi gli scambi
al banco di trilioni di euro di derivati, sono stati adottati ben presto in
Europa e si sono diffusi perché altri paesi hanno seguito la Francia. Pertanto
negli anni Novanta la deregolazione in Europa era molto simile a quella che
stava intervenendo negli Stati Uniti. Dopodichè non è stata più effettuata
nessuna seria riforma del sistema finanziario.
Le banche
hanno avuto un ruolo di primo piano nella creazione della cosiddetta finanza
ombra. Della quale fanno parte
anche quei trilioni di derivati che circolano senza essere regolati da nessuno.
Pure i veicoli di investimento strutturato, i SIV, fanno parte della finanza
ombra, perché essendo fuori bilancio non appaiono compresi nel perimetro della
banca che li sponsorizza. Vi sono molti altri soggetti della finanza ombra che
operano come banche ma non sono banche: tra essi rientrano i fondi comuni dei
mercati monetari, le società specializzate nel concedere prestiti, le divisioni
finanziarie delle corporation. Tutti enti che non sono visti, e non è possibile
siano visti, dal regolatore – per questo viene chiamata finanza ombra.
Nell’alimentare
tanto la finanza visibile quanto la finanza ombra, le banche europee hanno
avuto un notevole ruolo, da diversi punti di vista.
In primo
luogo, ricerche recenti hanno dimostrato come le banche europee abbiano
comprato in Usa, dal 2000 in avanti, centinaia di miliardi di dollari, di euro,
di sterline e anche di franchi svizzeri, di titoli cartolarizzati, compresi le
micidiali obbligazioni aventi per collaterale un debito, definite a disastro
avvenuto titoli tossici. Sono titoli assai complicati, caratterizzati da
un taglio difficilmente alla portata di qualcuno di noi, perché esso si colloca
in genere tra uno e due miliardi di dollari).
A questi
titoli poi definiti tossici, che erano venduti a pezzi o trance con diverse gradazioni
di rischio, le agenzie di rating, pagate dalle stesse banche che emettevano
quei titoli, assegnavano la massima credibilità – ovvero il minimo rischio di
insolvenza da parte del creditore – e per questo erano considerati sicuri. Le
banche europee si sono gettate su quei titoli giudicati sicuri, per cui stando
alle ricerche menzionate sopra centinaia di miliardi di derivati di questo tipo
sono stati creati in Usa proprio per soddisfare la domanda assidua delle banche
europee.
Inoltre,
alcune banche europee hanno loro stesse creato titoli analoghi per centinaia di
miliardi di dollari. La più impegnata è stata la Deutsche Bank, che ha
creato una serie di titoli – chiamati Gemstone – il cui taglio medio era
intorno a 1,1 miliardi di euro. Qualche banca francese si ritiene abbia fatto
lo stesso e forse anche altre, ma l’«ombra» per definizione è qualcosa in cui è
difficile vederci chiaro. Quando il domino ha cominciato a cadere – perché se
uno fa molti debiti distribuiti in una catena di numerosi soggetti, nel caso
fallisca anche l’ultimo di questi il problema risale la catena fino a quando i
debiti arrivano al consiglio di amministrazione della banca madre – vi sono
state banche quali la UBS (Unione delle Banche Svizzere), che tra il
2007 e il 2009 hanno dovuto cancellare dai propri bilanci qualcosa come
cinquanta miliardi di dollari. Peraltro senza patire troppo: la UBS ha un
bilancio che supera di circa dodici volte il bilancio federale della Svizzera.
La
questione che ci tocca anche oggi e che secondo i governi Ue richiede per essere
risolta licenziamenti facili, austerità, tagli alle pensioni, pensione a 105
anni e altre cose del genere, ha tuttora le radici nel fatto che le banche
europee sono piuttosto opache, ma al tempo stesso tradiscono notevoli
preoccupazioni di bilancio.
Le banche
tedesche per prime si collocano piuttosto in basso quanto a indice di
trasparenza o indice di visibilità del traffico bancario. Tuttavia, dietro alla coltre della finanza ombra
quel che sembra via via più evidente è che le banche sono ora impegnate allo
spasimo per ridurre il loro leverage, il citato rapporto tra capitale proprio e
capitali presi in prestito, spinte in questa direzione dalle nuove regole di
Basilea e dalla Autorità bancaria europea (Eba). Se non, più
probabilmente, dal terrore che succeda qualche nuovo grave incidente, perché se
l’ultimo anello della catena salta il problema del debito risale per forza sino
ai bilanci centrali.
Concludo
toccando la questione della riforma del sistema finanziario, della quale
si è parlato a lungo negli Stati Uniti, dove è stata varata nel luglio 2010 una
legge che si chiama Dodd Frank Act, conosciuta pure come Wall Street Reform.
Si stima che, a questo proposito, che la lobby bancaria abbia speso
trecentoventicinque milioni di dollari per indebolire e possibilmente bloccare
tale legge di riforma, che alla fine è risultata all’acqua di rose, e per di
più immensamente complicata, con un testo che conta 1652 pagine e richiederà
550 decreti attuativi. Dal luglio 2010 fino all’autunno 2011, per quanto è a
mia conoscenza, ne sono stati attuati solamente due o tre.
Pure in
Europa si sta discutendo di riforme finanziarie, una discussione estesa a
vertici extra Ue come il G20 dell’autunno 2011 a Cannes. La Commissione europea
ha allo studio una bozza dettagliata di riforma e il Parlamento europeo farà
una prima proposta a febbraio o marzo del 2012. Accade però che tutte le
proposte finora avanzate siano lontanissime dal cogliere le vere radici del
problema. Sarebbe necessaria una forte pressione politica, ci vorrebbero
milioni di persone per le strade a chiedere la riforma finanziaria, uno
scenario al momento non molto probabile. Molte ed evidenti sono le ragioni per
le quali si rende necessaria una riforma finanziaria radicale. In realtà niente
di rivoluzionario, sono cose dette da liberal americani o dallo stesso
governatore della Bank of England, Mervyn King, che pochi mesi fa ha
dichiarato: «Ci sono molti modi per organizzare l’attività bancaria. Quello
che abbiamo oggi è il peggiore che possiamo immaginare». Bisognerebbe
prenderlo sul serio, perché finora le riforme di cui si parla nella Ue sono affatto
insufficienti.
Si
dovrebbe intervenire su tre fronti. È ovvio
che non si può varare una riforma finanziaria solo in Italia, ma una riforma
nell’ambito dell’Unione Europea andrebbe comunque fatta per via dell’enorme
peso che in essa il sistema finanziario esercita attualmente su tutto:
sull’occupazione, la sanità, le pensioni, la terra, il cibo. È in gioco lo
svuotamento totale della democrazia.
Bisogna
ricondurre il sistema finanziario alle sue funzioni, che pure sono importanti.
Non si può semplicemente dire: «Chiudiamo le banche». Le banche sono indispensabili
come pure il sistema finanziario allargato, ma questi devono essere un ausilio,
un mezzo controllato dall’economia reale e soprattutto dai governi, dai
cittadini, dai meccanismi della democrazia.
Il
sistema finanziario internazionale ha dimensioni eccessive e in esso il sistema
finanziario europeo, il quale, si noti, è molto più grande di quello
statunitense, sia come numero delle banche sia in termini di attivi
controllati. C’è un elenco nel mio libro di venti gruppi finanziari che avevano
nel 2009 attivi superiori al trilione di dollari; fra questi venti, le banche europee
(con l’aggiunta di due non Ue, Ubs e Credit Suisse) sono ben 14. Se non si
riducono le dimensioni dei singoli gruppi finanziari, essi risulteranno sempre
incontrollabili e saranno essi a dettare le misure di austerità, comprese le
condizioni del mondo del lavoro, ai governi. Come stanno facendo.
In
secondo luogo, larga parte di questo sistema è in ombra, per questo si
chiama shadow banking. Qualcuno parla di regolare anche detto sistema, ma
le ombre non si regolano. Occorrerebbe accorciare, ridurre o, meglio ancora,
smantellare il sistema finanziario ombra.
In terzo
luogo le grandi società finanziarie, le bank holding companies, sono troppo
complesse. Seppure si costituisse un’autorità di regolazione europea dotata
di grandi poteri e ampi mezzi, essa sarebbe comunque impotente a causa delle
dimensioni e della struttura enorme di esse. Ricordo, per citare un solo dato,
che quando fallì nel settembre 2008, Lehman Brothers era composta da più
di 1800 entità giuridiche distinte. Anche in presenza di autorità di regolazione
assai robuste, se mai esistessero, dinanzi a simili castelli organizzativi è
impossibile cercare di stabilire “chi fa che cosa”.
Si può
certo introdurre per legge, ad esempio, una norma che separi l’attività di depositi
e prestiti delle banche dalle attività di investimento. Nondimeno se una banca
continua ad avere una miriade di divisioni o di dipartimenti interni
specializzati, ossia continua ad essere costituita sotto il controllo della
casa madre da migliaia di entità giuridiche indipendenti, come si fa a
controllare qual è l’attività realmente svolta dall’una o dall’altra di esse?
Controllare
significa andare negli uffici, tirar fuori i libri, le carte, vuol dire
impiegare decine di persone per settimane allo scopo di capire che cosa
realmente fa una sola divisione di una grande banca. È semplicemente
improponibile controllare chi fa che cosa se non si riduce la complessità del
sistema.
A parte
le bozze di riforma in discussione nel Parlamento europeo e nella Ce, ci sono
in giro varie proposte provenienti da centri studi. Alcune assai interessanti sono
state portate a Cannes da un centro tedesco specializzato in studi sullo
sviluppo e l’ecologia per un’economia sostenibile. Ma è chiaro che tali proposte,
lasciate a sé, non serviranno a nulla.
Il
problema vero è che sono i cittadini che ne dovrebbero discutere, e sarebbe
bene che si cominciasse ad allargare la discussione in modo che il maggior
numero capisca la reale entità del problema e cominci a chiedere una riforma
radicale del sistema finanziario.
È
complicato, è politicamente arduo, certo. Ma per il futuro della democrazia,
non soltanto del sistema economico, è assolutamente indispensabile ridurre a
dimensioni ragionevoli i gruppi finanziari e con essi l’insieme del sistema
finanziario internazionale. Un noto economista americano ha detto che sarebbe
indispensabile ridurre il sistema finanziario a un terzo di quello che è oggi.
Forse è una misura eccessiva, ma è la direzione in cui appare necessario
procedere. In presenza di troppi segnali attestanti che l’economia del mondo, e
con essa la democrazia dei nostri paesi, sta viaggiando verso la catastrofe. Se
non riusciamo a trasformare tutto quanto si è qui ricordato in istanza, in
domanda politica, in un numero di deputati sufficienti per introdurre una
riforma del genere, dovremo aspettarci una crisi, politica ed economica a un
tempo, ancora peggiore di quella che stiamo vivendo adesso.
Finora
non mi sono stati imputati molti errori nel libro da cui ho tratto queste considerazioni.
Concludo rilevandone uno io. Il libro è stato pubblicato nel marzo del 2011. In
esso prevedevo una nuova crisi finanziaria, o meglio una nuova grave fase di
essa, per il 2015. Mi sono sbagliato: è arrivata pochi mesi dopo.
*[Il testo è la trascrizione di un intervento di
Luciano Gallino, registrato il 4 novembre 2011 alla Fiom di Torino – in
occasione della presentazione del suo libro, «Finanzcapitalismo. La civiltà del
denaro in crisi» (Einaudi, 2011) – e, in seguito, rivisto dall’autore.]
"Non v'è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato" Mt 10,27
RispondiEliminaQuesto si che è parlare chiaro, svelare i fatti così come sono avvenuti, manifestare apertamente la lucida follia della Finanza Moderna, che ha commesso tutti questi giochetti fraudolenti, continuando impunemente ad operare a danno dell'economia reale e degli Stati e loro popoli.
Bravo al prof. Gallino
E' vero Nicola,
Eliminaquesto è uno degli articoli più chiari e lucidi che siano mai stati scritti sulla crisi finanziaria in corso...complimenti davvero a Gallino, comprerò sicuramente il suo libro...rifacendomi alla tua citazione evangelica, speriamo che un giorno arrivi qualcuno dal cielo o dalla terra a cacciare via i "mercanti dal Tempio"!!!! A presto! Piero
Quell'evocazione riportata nel commento precedente:
RispondiElimina"...speriamo che un giorno arrivi qualcuno dal cielo o dalla terra a cacciare via i "mercanti dal Tempio"
ha trovato una risposta, eccola:
http://www.opptitalia.org/index.php/cos-e-il-one-people-s-public-trust
( per una comprensione completa sono da leggere anche gli allegati presenti nei link dell'articolo )
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