sabato 4 febbraio 2012

IL QUANTITATIVE EASING DELLA FED STA ESPORTANDO L’INFLAZIONE NEI PAESI EMERGENTI


Qualche giorno fa il governatore della banca centrale americana Federal Reserve Ben Bernanke (foto a sinistra) ha dichiarato pubblicamente che il federal fund rate (il principale tasso di riferimento a breve termine su cui vengono modulati tutti gli altri tassi di interesse nel circuito interbancario) verrà mantenuto agli attuali livelli prossimi allo zero (0%-0,25%) fino al 2014. Non  solo. Bernanke ha anche annunciato che prevede di immettere nel mercato un’ulteriore massiccia iniezione di liquidità comprando 2 trilioni di dollari (2000 miliardi) di titoli di stato americani e titoli derivati MBS (Mortgage Backed Security, titoli garantiti legati a mutui ipotecari, che non sono dei veri e propri mutui subprime, ma poco ci manca).

Questo annuncio da parte della Federal Reserve ha fatto ovviamente tirare un sospiro di sollievo alle banche americane, che potranno così rifinanziarsi facilmente nel mercato interbancario e nello stesso tempo liberarsi di titoli sempre meno liquidi e più rischiosi. Ma c’è un’altra parte del mondo che comincia a tremare di fronte a questa nuova inondazione di dollari, perchè se le operazioni di quantitative easing della Fed hanno avuto pochi effetti nel mercato interno americano, potrebbero invece averlo in modo assai più incisivo nei mercati dei paesi emergenti (i cosiddetti BRICS, Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica).


Come ha fatto giustamente notare l’analista economico Dan Steinbock sul sito Economonitor, le banche americane spostano i capitali dove pensano di ottenere maggiori profitti e minori rischi, e da questo punto di vista i paesi BRICS offrono un buon compromesso: tuttavia l’acquisto sfrenato di titoli pubblici e privati ad alto rendimento e breve scadenza dei paesi emergenti potrebbe presto tradursi in una serie di bolle speculative e in un innalzamento repentino dell’inflazione, che minerebbero alla base l’economia ancora fragile di queste nazioni, fondata soprattutto sulle esportazioni di materie prime.

Non a caso, già nell’autunno del 2010, il ministro del commercio cinese Chen Deming si lamentava sdegnato, dicendo che  "l’emissione di dollari degli Stati Uniti è fuori controllo e i prezzi internazionali delle materie prime continuano a salire". Questo incubo dell’"inflazione importata" dagli Stati Uniti è stato un vero freno per la Cina ed essendo la Cina un punto di riferimento per tutti gli altri paesi dei BRICS, l’arresto è stato ancora più brusco del previsto e la loro espansione economica è stata molto più contenuta rispetto a quella che si poteva preventivare in assenza dell’intervento monetario americano.



Inoltre, l’inflazione del dollaro sui mercati dei paesi emergenti ha un altro effetto non secondario soprattutto per quelle nazioni, come Cina e Brasile, che negli anni passati  hanno molto investito in titoli di stato americani: in un regime di inflazione crescente, i titoli comprati in passato e denominati in dollari perdono costantemente valore (perché acquistati in un momento in cui il dollaro aveva un potere di acquisto maggiore di quello attuale) e di conseguenza la posizione debitoria degli Stati Uniti verso questi paesi si alleggerisce man mano che cresce l’inflazione. Quando gli investitori brasiliani e cinesi decideranno di farsi rimborsare i titoli al valore nominale di acquisto più gli interessi maturati, si ritroveranno in mano una certa quantità di dollari svalutati, che in un mercato dove i prezzi dei prodotti continuano a salire inesorabilmente non corrispondono più alla cifra inizialmente investita.

In altre parole, mentre l’America di Bush cercava di soggiogare il resto del mondo con la minaccia delle bombe, gli Stati Uniti di Obama agiscono in modo più raffinato, portando la guerra sul campo commerciale e sganciando fiumi di dollari ovunque per tenere a bada la voglia di crescita di chi ha ancora parecchi margini e molti vantaggi competitivi da sfruttare. L’inflazione è soltanto il primo passo, ma il secondo sarà sicuramente l’acquisizione diretta di quelle aziende che non riescono più stare al passo in un regime di prezzi crescenti e minori volumi di produzione.    

Le banche centrali dei BRICS hanno cercato subito di correre ai ripari e di arginare un possibile avanzamento dell’inflazione con la mossa classica di aumentare il tasso ufficiale di sconto del denaro: il Brasile ha portato il tasso di interesse al 10,5%, la Cina lo ha innalzato fino al 6,5%, l’India mantiene il tasso di sconto dell’8,5% dal marzo 2010. In pratica questi paesi stanno rispondendo al quantitative easing (alleggerimento quantitativo) degli Stati Uniti con un quantitative tightening (stretta quantitativa), ma dato che la disponibilità finanziaria messa in campo è ampiamente inferiore potrebbe non bastare.



India, Cina e Giappone si stanno già organizzando per altre vie e per limitare la loro dipendenza dal dollaro hanno deciso di comune accordo di monetizzare le transazioni commerciali direttamente con le loro valute nazionali; ma i cinesi sanno che un eccessivo apprezzamento dello yuan, come moneta di riserva al posto del dollaro, potrebbe alla lunga danneggiare gli affari e le esportazioni made in China. Quindi, in questo delicato momento di passaggio, dove sia l’euro che il dollaro, a causa delle politiche monetarie espansive delle rispettive banche centrali BCE e Fed, potrebbero presto precipitare in una devastante caduta libera sui mercati internazionali del cambio, la Cina non vuole fare affatto il passo più lungo della gamba, ma anche lei si è messa alla finestra a guardare e ad attendere l’evoluzione degli eventi. 

Incapaci di risolvere i loro problemi economici interni con politiche più radicali, gli Stati Uniti stanno in pratica cercando di aggirare l’ostacolo e di trovare una soluzione esterna alla crisi, dato che oltre ad esportare l’inflazione negli altri paesi intendono ottenere come diretta conseguenza una forte svalutazione del dollaro sui mercati internazionali. Secondo i calcoli della Fed, questi due effetti congiunti potrebbero con il tempo migliorare sia le esportazioni delle imprese americane che la competitività della produzione interna rispetto ai più agguerriti concorrenti stranieri, dando una scossa definitiva alle possibili minacce di deflazione (ovvero la diminuzione del livello generale dei prezzi al consumo dovuta alla riduzione della domanda di beni e servizi). E Bernanke ha ben chiaro questo obiettivo da tempo, perché come lui stesso ha dichiarato nel 2002, ancora prima di diventare presidente della Fed:

“… Ci sono state volte quando la politica della svalutazione è stata un'arma efficace contro la deflazione. Un esempio eclatante della storia degli Stati Uniti è la svalutazione di Franklin Roosevelt del 40% del dollaro contro l'oro nel 1933-34, accompagnata da un programma di acquisti d'oro e dalla creazione di fondi nazionali. La svalutazione e l’offerta massiccia di moneta hanno permesso il rapido miglioramento del quadro economico generale e la deflazione americana si è conclusa rapidamente…L'economia è cresciuta notevolmente, e tra l'altro, il 1934 fu uno dei migliori anni del secolo per il mercato azionario. Se non altro, l'episodio ha dimostrato che alcune azioni monetarie possono avere potenti effetti sull'economia, anche quando il tasso di interesse nominale è presso o vicino allo zero, come è avvenuto al momento della svalutazione di Roosevelt.”

A modo suo, Bernanke si ritiene un keynesiano. Ma un keynesiano sui generis, perché l’offerta di moneta della banca centrale da lui diretta è quasi esclusivamente limitata agli istituti bancari che operano nel circuito interbancario, mentre poco o niente arriva nell’economia reale, per stimolare la domanda o la produzione, o viene convogliata per gli investimenti pubblici. Inoltre ai tempi di Roosevelt i mercati internazionali erano ancora separati da un certo grado di protezionismo e gli effetti della politica monetaria di un paese non causavano squilibri all’esterno dei confini nazionali, come accade oggi nell’era della globalizzazione dei mercati finanziari. La politica monetaria di Roosevelt da questo punto di vista si trova quindi proprio agli antipodi rispetto a quella di Bernanke, malgrado lui continui a professarsi sfacciatamente un suo convinto sostenitore.

I fatti poi lo smentiscono clamorosamente perché, al momento del suo insediamento alla Fed nel 2005, Bernanke non pensava certo alla svalutazione come sbocco naturale alla crisi e la sue decisioni in ambito di politica monetaria furono molto diverse da quelle attuali: quando arrivò al suo orecchio il sentore di una possibile bolla speculativa sui mutui immobiliari, Bernanke cominciò disperatamente ad aumentare i tassi dei fed fund rate fino a superare la soglia del 5%, per mettere un freno alla domanda incessante di denaro fresco da investire da parte delle banche. Ma ormai era troppo tardi, la bolla era già scoppiata e Bernanke dovette cambiare repentinamente politica monetaria per impedire che quelle stesse banche fallissero e tutto il delicato sistema finanziario costruito intorno alla Federal Reserve andasse in frantumi (guarda il grafico sotto, in cui si vede bene l’evoluzione delle manovre di Bernanke sul tasso ufficiale di riferimento dal 2005 in poi).




Dopo le due operazione del QE1 e QE2, che dal 2008 al giugno 2011 hanno iniettato complessivamente circa 2,3 trilioni di nuovi dollari sia nel circuito interbancario che direttamente nel mercato secondario, Bernanke ci riprova con questa nuova manovra di monetizzazione in grande stile (per l'appunto il QE3 da 2 trilioni di dollari), sperando di non finire nella stessa trappola della liquidità in cui è precipitato il Giappone da quasi un decennio: il governatore non solo fornirà altri soldi alle banche, ma in maniera più o meno esplicita ha già invitato gli investitori americani a portare questi soldi all’estero per inflazionare i mercati dei paesi emergenti e svalutare il dollaro.

Con questa abile mossa (non ci vuole molto a pigiare un tasto e creare dollari dal nulla da regalare a prezzi stracciati ai banchieri) viene evitato pure il rischio che si crei inflazione negli Stati Uniti, come molti paventano, perché come lo stesso Bernanke ha ammesso il pericolo è scongiurato anche dal costante livello basso della domanda interna e dal tasso di disoccupazione che ormai si è stabilizzato intorno all’8%. A Bernanke non dispiace insomma che ci siano così tanti disoccupati in suolo americano e il presidente della Fed non farà nulla per migliorare le condizioni di impiego dei connazionali, perché questo potrebbe giocare a suo sfavore: lui vuole combattere la deflazione per via esterna e non intende assolutamente creare invece i presupposti per un’improvvisa impennata dell’inflazione negli Stati Uniti (chi lavora spende e se troppi cominciano a lavorare e spendere, l’inflazione sale e le fortune in denaro dei pochi ricchi privilegiati cominciano progressivamente a perdere potere d’acquisto, quindi mantenere una certa quota di disoccupazione non solo è ragionevole ma anche auspicabile: sembra strano da credere, ma i banchieri ragionano così).

Anche perché obiettivamente, le armi di politica monetaria rimaste in mano al povero Bernanke sono davvero poche: dopo avere portato i tassi a zero e offerto tutta la quantità di moneta disponibile, cosa rimane ancora da fare? Si potrebbe tentare di convincere il Congresso ad osare un po’ di più sul versante della spesa a deficit dello stato per finanziare gli investimenti, ma per quale motivo? Per dare qualche speranza in più ai giovani nullafacenti? Per convincere i ciccioni americani a mangiare ancora più hamburgers? La Federal Reserve non è un’istituzione umanitaria di assistenza e carità, ma una società bancaria privata che si occupa di fare affari ed è da sempre impegnata a supportare i suoi partners commerciali (principalmente bancari e finanziari) nella ricerca dei migliori investimenti in giro per il mondo. Se negli Stati Uniti le possibilità di profitto sono scarse, meglio andare all’estero. La conclusione è lapalissiana e non servono molti altri suggerimenti da parte di Bernanke per convincere i banchieri americani a seguire questa strada.

Le ossessioni del Congresso per la montagna di debito pubblico da cui è sommerso il governo degli Stati Uniti offrono poi un’altra sponda a Bernanke, che non ha alcuna intenzione di spiegare agli americani (né tantomeno ai politici americani) che quei 14 trilioni di dollari di debito pubblico sono soltanto un effetto ottico e uno specchietto per le allodole, perché fino a prova contraria gli Stati Uniti sono ancora un paese con piena sovranità monetaria e possono rimborsare tutto il debito che vogliono pigiando dei tasti e “stampando” a getto continuo tutti dollari che servono. Certo la quota del debito detenuto in mani straniere è cresciuta molto di più rispetto alla parte domestica e governativa (+350% rispetto a marzo 2001, guarda grafico sotto), arrivando a sfiorare i 4,5 trilioni di dollari e quindi circa un terzo del totale.





Ma anche questo è un falso problema, perché la Cina (in rosso nel grafico) che detiene  3 di quei 4,5 trilioni di dollari di debito estero non chiederà mai il rimborso dei titoli di stato americani, perché finirebbe per assecondare il gioco sporco degli Stati Uniti e di inflazionare ancora di più i suoi mercati con le banconote verdi a stelle e strisce. Per la Cina è molto più conveniente rifinanziare a scadenza e mantenere in mano i titoli, che rispetto alla liquidità volatile sempre più svalutata possono servire di più nelle trattative bilaterali con il governo degli Stati Uniti come arma di ricatto per strappare magari qualche piccolo accordo commerciale a loro favore.

Gli ultimi allarmi lanciati dal Fondo Monetario Internazionale sullo sforamento da parte del debito pubblico degli Stati Uniti del 100% del PIL (per l’esattezza il 102% nel 2011, che secondo le stime salirà al 107,6% nel 2012 e al 112% nel 2013), non hanno per nulla impressionato Bernanke che, con estremo acume tattico, rilanciava quasi in contemporanea con le dichiarazioni di Christine Lagarde il suo guanto di sfida, annunciando la terza grande manovra della politica monetaria americana estesa fino al 2014.

Chi voleva sapere su quale fronte di battaglia si sarebbero schierati gli Stati Uniti, all’interno della più vasta guerra finanziaria mai avvenuta nella storia, è stato presto accontentato: la Federal Reserve continuerà a stampare dollari e prestare alle banche, stampare dollari e comprare titoli di stato, stampare dollari e sterilizzare titoli tossici, stampare ad oltranza senza sapere con certezza cosa accadrà con tutto questo oceano di dollari sparso per il mondo e forse l’unica speranza per interrompere lo tzunami in corso di cifre a 12 zeri è che qualcuno armato di coraggio fermi Bernanke e gli tolga finalmente dalli mani questa maledetta stampante (stampante virtuale si intende, perché ormai tutti sanno che da qualche tempo a questa parte le guerre si combattono semplicemente pigiando i tasti di un computer). Spiegando poi in disparte, sottovoce, a Bernanke che i soldi non sono armi di distruzione di massa da utilizzare nelle sue personali ed infantili partite di risiko contro il resto del mondo, ma mezzi o strumenti per  garantire una distribuzione più equa e sostenibile della ricchezza. E il movimento dei ragazzi di Occupy Wall Street proprio questo va gridando inascoltato da mesi.     

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