Partiamo
da una considerazione di carattere generale: quando qualcuno ha un grave
problema da risolvere, nel caso dell’Italia si tratta dell’alto rendimento dei titoli di stato a
cui è costretta a rifinanziare l’enorme debito pubblico (che oscilla attualmente fra il
6%-7% di interesse passivo nel mercato secondario ed è misurato dallo spread con i titoli bund tedeschi), cerca con tutti i mezzi a
disposizione di porre rimedio nell’immediato, ma allo stesso tempo è
istintivamente portato suo malgrado ad esaminare il passato per ricercare i
motivi che hanno causato quel problema ed evitare di commettere gli stessi
errori in futuro.
Oggi
quasi tutti gli analisti e gli osservatori finanziari mainstream concordano nel dire, a torto o a ragione, che il vero
grande problema dell’Italia è di carattere strutturale e risiede appunto nel colossale
ammasso di debito pubblico accumulato
negli ultimi 30 anni (quasi 1920 miliardi di euro secondo le ultime stime), che
suscita lo scetticismo da parte degli investitori internazionali riguardo alla
possibilità dello stato italiano di ripagarlo e la conseguente richiesta di
elevati rendimenti per coprire l’alto rischio di investimento e avere ancora
convenienza a comprare altri titoli di debito italiano.
Tuttavia sono
sempre pochi quelli che spiegano il motivo per cui il debito pubblico è davvero
un problema o la causa dell’aumento inarrestabile del debito stesso, che ha
portato nel giro di qualche decennio l’Italia a passare dal ristretto conclave
delle 5 nazioni più ricche e sviluppate del mondo fino ai limiti dell’attuale
default e fallimento finanziario, perché in questo caso bisognerebbe rimettere
in discussione talmente tanti dettagli e
anomalie della caracollante e stantia politica
monetaria europea in cui l’Italia è incastrata, da scoraggiare la capacità
di analisi dei giornalisti e degli accademici mainstream più irriverenti e scrupolosi (non trascuriamo però la
possibilità che pur sapendo tutto questi menestrelli di regime non descrivono
chiaramente i fatti perché non vogliono o non possono parlare o peggio ancora perché
sono direttamente pagati per tacere dagli stessi che hanno avuto non poche
responsabilità e vantaggi dalla creazione del problema).
A questo
punto, come sempre accade in questi casi, bisogna arrangiarsi da soli, partendo
dallo studio dei dati reali e
facendo alcune considerazioni sulle scelte adottate in passato dalla classe
dirigente italiana per fronteggiare quello che viene considerato appunto il
problema dei problemi: il debito pubblico e il suo alleato più agguerrito che è
l’inflazione. Conducendo in modo
sintetico la nostra analisi storica, teniamo anche d’occhio il comportamento
della banca centrale nazionale, la
Banca d’Italia per intenderci, e il regime
di cambio della moneta, che come sappiamo può essere fisso (ovvero ancorato ad un bene materiale come l’oro o ad
un’altra valuta estera) oppure flessibile
(il tasso di cambio della moneta può fluttuare liberamente nel mercato dei
cambi, in base ai meccanismi automatici di adeguamento della bilancia dei
pagamenti e alla richiesta o offerta di moneta sui mercati).
Questi
quattro fattori (debito pubblico, inflazione, regime di cambio, comportamento
della banca centrale) sono le variabili su cui faremo ruotare tutti i nostri
ragionamenti e tireremo le conclusioni finali.
Vediamo
innanzitutto il grafico dell’andamento storico del rapporto debito/PIL nel periodo 1950-2010 pubblicato dal giornale
on line Linkiesta, per capire l’evoluzione nel tempo del fenomeno e valutare gli
elementi che hanno influenzato il cambiamento di rotta.
Le
variazioni del rapporto debito/PIL nel periodo 1950-1970 sono minime e si aggirano su una media abbastanza bassa
del 30% (livello davvero irrisorio se confrontato con il nostro attuale 120%) e
anche l’inflazione è molto contenuta perché varia da un minimo del -2% nel 1958
(quindi i prezzi al consumo si abbassavano e aumentava il potere di acquisto
della moneta nazionale, la lira) ad un massimo del 8,1% nel 1963, con
un’inflazione media nel periodo di appena il 3,3%.
Nel settore
della politica monetaria, la Banca
d’Italia era completamente al servizio dello Stato Italiano, perché oltre
ad assicurare uno scoperto di conto corrente per le spese straordinarie di
investimento statale, partecipava alle aste pubbliche di collocamento dei
titoli di stato per far fronte alle necessità di spesa corrente, sia come prestatore di ultima istanza nel caso
una parte dei titoli rimanesse invenduta sia come moderatore del rendimento al margine
(la tipologia di asta marginale
consentiva di fissare il rendimento in base all’ultima offerta che copriva
l’intera domanda di liquidità richiesta dallo stato) comprando volontariamente
l’ultima quota di titoli in asta per evitare di pagare elevati rendimenti accontentando
le offerte più ribassiste degli investitori.
Il tasso di cambio della moneta era fisso, perché in base agli Accordi di Bretton Woods del 1944,
tutte le monete internazionali dovevano avere un rapporto di cambio fisso con il
dollaro e solo quest’ultimo era convertibile in oro al prezzo di 35 dollari
all’oncia, mantenendo quindi in teoria una sorta di parità fra la quantità di
dollari circolanti e l’oro custodito nei forzieri delle banche centrali (parità
in effetti mai rispettata che portò alla cancellazione improvvisa di questo
anomalo regime Gold Exchange Standard
nel 1971 per mano del presidente
americano Richard Nixon).
La
situazione di grande crescita economica
degli Stati Uniti trainò nel suo vortice anche l’Italia, che in quel periodo
visse il momento d’oro della sua espansione e del miglioramento delle
condizioni generali di vita, applicando alla lettera delle politiche monetarie
di tipo keynesiano che inducevano ad un notevole ricorso alla spesa pubblica
come principale fonte di stimolo della domanda aggregata di beni e servizi:
avendo questo aggancio esterno al dollaro e tramite il controllo interno del tasso ufficiale di sconto del denaro,
il Ministero del Tesoro poteva
modulare perfettamente l’offerta di moneta in base all’andamento della
produzione reale e dei consumi, mantenendo l’inflazione in un corridoio
abbastanza stretto.
A partire
dal 1971, il quadro generale cambiò
radicalmente non tanto per l’introduzione del regime flessibile di cambio, che
sganciando la lira dal dollaro aveva finalmente concesso una reale sovranità monetaria all’Italia, ma
perché a causa di una crisi geopolitica internazionale i paesi produttori di
petrolio dell’OPEC avevano cominciato a speculare sull’aumento del prezzo al
barile del petrolio (da 3 dollari fino a 12 dollari), con un innalzamento a
cascata di tutti i prezzi al consumo, dato che l’intero sistema produttivo e
industriale italiano è legato fortemente al costo dell’energia e ha una forte
dipendenza dal petrolio in particolare: come conseguenza si ebbe un balzo repentino dell’inflazione che
schizzò al livello record del 25,2% nel novembre del 1974.
Non entro
nel merito delle lotte sindacali e delle grandi conquiste in termini di solidità
dello stato sociale che erano state ottenute in quel periodo (Statuto dei
Lavoratori nel 1970, introduzione della cassa integrazione, miglioramento del
sistema pensionistico), ma grazie a queste ultimi strumenti di garanzia dei
diritti dei lavoratori il governo italiano non poteva più contare sulla
cosiddetta svalutazione interna
(abbassamento dei salari dei lavoratori per aumentare la competitività dei
prodotti italiani sui mercati internazionali) e preso dal panico cominciò a
perdere letteralmente la bussola.
Invece di
considerare le origini che avevano causato questa crisi congiunturale cominciò
a lavorare solamente sugli effetti: per intenderci, invece di affrontare di
petto i problemi strutturali
dell’economia italiana in termini di spesa pubblica improduttiva, innovazione,
ricerca, sviluppo, infrastrutture e studiare un serio piano energetico nazionale che limitasse la sua dipendenza dal
petrolio, lo stato inaugurò il triste periodo delle svalutazioni esterne della moneta per aumentare maggiormente la competitività
italiana all’estero, puntando esclusivamente sul fattore prezzo piuttosto che
sulla qualità, l’efficienza e lo sviluppo di nuove metodologie produttive.
Sempre
nel campo della limitazione degli effetti e non della soluzione delle cause,
nel 1975 lo Stato su pressioni dei
sindacati introdusse il meccanismo della scala
mobile che adeguava gli stipendi dei lavoratori all’aumento tendenziale
dell’inflazione, creando un vizioso avvitamento fra incremento dei prezzi, aumento
degli stipendi e ulteriore incremento dei prezzi al consumo, senza eliminare di
fatto il problema di fondo: l’inflazione infatti aumentava a causa dell’elevato
costo per l’energia e non per un eccesso o un difetto di moneta circolante.
Possiamo
tranquillamente affermare che lo stato italiano nel suo complesso cominciò ad
arretrare proprio nel periodo in cui era giunto il momento di avanzare con
l’innovazione e con l’audacia, dato che aveva ottenuto una piena indipendenza,
sovranità e autonomia in campo monetario (non in campo politico però, perché
l’Italia ha dovuto sempre sopportare una certa sudditanza e un ruolo subalterno
nei confronti della superpotenza americana): soffrendo per essere rimasta
orfana del dollaro e avendo poca capacità di autoregolarsi in campo monetario,
l’Italia decise proprio in quegli anni di stringere il patto di ferro con la
forte Germania, che avrebbe portato la nazione ad aderire nel marzo 1979 allo SME (Sistema Monetario Europeo), che sarebbe in pratica
l’anticamera dell’attuale Unione Monetaria.
In base a
questo accordo, gli stati aderenti (Germania, Francia, Italia, Danimarca, Paesi
Bassi e Lussemburgo) si impegnavano a mantenere una fluttuazione rigida delle monete del 2,5% all’interno di un
particolare paniere chiamato ECU, con la sola eccezione dell’Italia che proprio
a causa della sua elevata inflazione poteva avere un margine di fluttuazione
superiore (6%): in questo modo tutte le monete ancoravano il proprio valore di
cambio a quello del marco tedesco,
che essendo la moneta più forte e avendo alle spalle il paese con maggiori
volumi di esportazioni, trainava tutte le altre monete e limitava il campo di
azione delle singole banche centrali (il marco diventava la moneta di riserva
principale al posto del dollaro e ogni banca centrale era costretta a comprare
o vendere marchi per equilibrare le oscillazioni della propria moneta nazionale,
impedendo in pratica quei meccanismi
automatici di adeguamento dei tassi di cambio che si stabiliscono in base
ai volumi di esportazione o importazione dall’uno o dall’altro paese).
Il debito
pubblico in questo periodo non è ancora un problema perché il suo rapporto con
il PIL oscilla fra il 44% e il 58%, ma il vero nemico da combattere (almeno
secondo le tesi strampalate dei governanti di turno) è l’inflazione, perché in Italia, così come in molte altre parti del
mondo, si tende sempre a rimanere in superficie e ad esternalizzare le
questioni in qualcosa di astratto (vedi appunto inflazione o lo stesso debito
pubblico, che vengono spesso evocati come dei veri e propri fantasmi infernali),
piuttosto che andare a fondo alla vera radice concreta di ogni singola
questione: per uno stato con moneta sovrana il reale problema legato al denaro
non è quanto spendi ma come spendi, perché solo la parte di spesa pubblica
improduttiva (l’assistenzialismo di stato fine a stesso per i soggetti che non
solo non hanno alcun diritto a ricevere sussidi ma non vengono nemmeno inseriti
in programmi di formazione e aggiornamento utili ad un rapido inserimento nel
mercato del lavoro e al raggiungimento della piena occupazione) crea aumenti di
inflazione, mentre il resto viene assorbito da una maggiore offerta di beni e
servizi oppure viene drenato con una seria politica
fiscale.
Comunque
con il pretesto di combattere appunto l’inflazione e assicurare all’Italia la
permanenza nell’area SME, nel luglio del 1981
il ministro del Tesoro Beniamino
Andreatta (1928-2007, foto sopra) sancisce il divorzio fra Banca d’Italia e lo stato,
impedendo di fatto alla banca centrale di partecipare alle aste di collocamento
dei titoli di debito pubblico e spalancando le porte alle banche commerciali
che potevano tranquillamente decidere tramite cartelli o accordi sottobanco
quale sarebbe stato il rendimento migliore da strappare ad ogni asta di nuovi
titoli (l’impennato del rendimento arrivò fino al 12%-13% a metà anni ottanta,
praticamente il doppio dell’attuale 6%-7%).
Dopo il
ritorno al regime dei cambi fissi, questa fu la seconda mazzata che amputò
definitivamente la ritrovata sovranità monetaria dell’Italia (che durò soltanto
lo spazio di 8 anni, dal 1971 al 1979) e con i tassi di rendimento così
elevati, sia a breve che a lungo termine, cominciò l’inarrestabile cavalcata del debito pubblico fino al livello record
del rapporto debito/PIL del 121,8% nel 1994
(che dopo la leggera discesa seguita alla politica dei grandi tagli del governo
Amato nel 1992 è rimasto pressoché invariato fino ai nostri giorni), perché
contemporaneamente con questo massiccio spostamento di investimento dal campo
produttivo a quello finanziario si assiste anche ad una progressiva stagnazione della produzione interna
con bassi tassi di crescita (vedi
grafico sotto che analizza la variazione del prodotto interno lordo nazionale PIL dal
1985 fino in previsione al 2015), che in ogni caso non erano più in grado di
compensare il superiore incremento del debito pubblico (il numeratore cresceva
in modo più rapido del denominatore).
A questo
punto occorre sottolineare che il debito pubblico non è un problema in quanto
tale, ma lo diventa per il modo in cui è stato creato: il debito pubblico
accumulato da una nazione con moneta sovrana può diventare la ricchezza di uno
stato e dei suoi cittadini (vedi recenti analisi e studi degli economisti
americani della MMT, Modern Money Theory) se la spesa
pubblica viene incanalata verso piani produttivi coerenti (che non significano
soltanto crescita economica e sostegno dell’imprenditoria privata fuori
controllo, ma anche per esempio tutela del paesaggio e prevenzione dei rischi
idrogeologici, che in quanto costi futuri evitati diventano un profitto netto e
reale per lo stato e dovrebbero a pieno diritto rientrare nelle voci del bilancio),
mentre il debito pubblico diventa un grave problema se viene contratto con una
moneta non più sovrana ma estera (qualsiasi aggancio ad un'altra moneta
straniera comporta la perdita di sovranità) e veicolato verso settori non
produttivi ma speculativi come quelli finanziari e bancari, che con il tempo sulla
scia del solito traino americano e anglosassone hanno subordinato la loro
normale attività creditizia di sostegno alle imprese alla ricerca di una
rendita più sicura e certa con gli investimenti finanziari (con il metodo
assurdo della socializzazione delle
perdite e privatizzazione dei profitti, il rischio di investimento delle
banche è stato garantito dai salvataggi pubblici e trasferito in toto agli
stati, che pur essendo poi le vittime sacrificali sono inizialmente i
principali fautori della speculazione finanziaria, e l’articolo 8 dell’ultima
manovra del governo Monti, con le misure per la stabilità del sistema
creditizio, non fa che confermare questa spregevole tendenza).
A completare questo lungo ma irreversibile processo di espropriazione della sovranità monetaria
da parte delle istituzioni bancarie private, nel 1992 il ministro Guido Carli,
guarda caso ex governatore della Banca Italia, con un decreto legge stabilisce che “le
variazioni del tasso di sconto sono
disposte dal governatore della Banca d’Italia con proprio provvedimento” e non
più dal Ministro del Tesoro, togliendo allo stato l’ultima carta per agire in
campo di politica monetaria e regolamentare l’offerta di moneta.
Il
resto è storia relativamente recente, con le manovre lacrime e sangue del
governo Amato nel settembre 1992 per arginare la speculazione sulla lira, che
ha costretto alla svalutazione e all’uscita temporanea dallo SME, l’adesione al
Trattato di Maastricht dell’Unione Europea, l’ingresso nell’Unione Monetaria e
tutte quelle limitazioni che hanno soltanto spostato la sovranità monetaria
insieme a buona parte della residua sovranità politica dalla Banca d’Italia
alla BCE, senza cambiare lo schema
di fondo che priva lo stato di qualsiasi autonomia decisionale in campo
monetario e vincola le esigenze di finanziamento per la spesa pubblica di un
intero stato democratico (?) alle decisioni
e agli umori degli investitori istituzionali autorizzati dal Ministero
delle Finanze a partecipare alle aste di collocamento dei titoli di stato (in
Italia sono attualmente venti fra cui Unicredit, Montepaschi, Intesa e la
temutissima Goldman Sachs).
Se
analizziamo nel grafico sotto l’andamento dell’inflazione nel periodo 1980-2003
fornito dal CCIAA di Trieste, notiamo che in
effetti dopo la decisione del ministro Andreatta di rompere il legame fra Banca
d’Italia e lo stato (fine della politica fiat
money, ovvero la creazione libera di nuova liquidità per coprire le
esigenze di finanziamento dello stato) abbiamo assistito ad una rapida
flessione dell’inflazione, ma a quale prezzo verrebbe da dire.
La
discesa dell’inflazione ha provocato l’impoverimento progressivo dello stato e
della sua capacità di spesa, trasferendo la liquidità e i profitti dentro le
casse delle banche private e delle società di investimento straniere, che
continuano ancora oggi a lucrare sulle disgrazie di un’intera nazione: l’aggancio
della lira all’andamento del marco tedesco ha costretto l’Italia a seguire
delle politiche di rigore di bilancio e
di austerità fiscale tanto care alla Germania, che non sono però
assolutamente adeguate ad uno stato che deve ancora completare il suo percorso
di assestamento strutturale e minacciano qualsiasi possibilità di ripresa
economica.
In
conclusione, possiamo soltanto ribadire che debito pubblico e inflazione
non sono mai stati un vero problema per uno stato che ha una piena sovranità
monetaria ed economica (una sua banca centrale di emissione, una moneta che
abbia un tasso di cambio flessibile e modulabile con le altre valute estere, un
solido tessuto produttivo e una corretta politica fiscale), mentre lo
diventavano in una nazione come l’Italia di oggi che non ha più una sua banca centrale di riferimento (la BCE non può
per statuto dare sostegno diretto agli stati dell’Unione Europea, mentre è
molto più generosa nei confronti delle banche private, che paradossalmente sono
diventate non solo più forti degli stati dal punto di vista economico ma anche
più importanti delle nazioni in ambito strategico, perché se il fallimento di
un intero stato europeo è tuttora ammissibile, vedi caso Grecia, non lo è
quello di una qualsiasi banca che ho svolto male o in maniera superficiale il
suo lavoro di investimento), non ha più
una sua moneta ma è agganciata ad una valuta estera come l’euro ed è
costretta a dipendere dai finanziamenti
esterni per sopperire ai suoi comprensibili bisogni di liquidità.
La
fanatica pretesa neoliberista di far
funzionare gli stati come delle aziende private, con l’assillo del pareggio o addirittura dell’avanzo di bilancio,
si scontra con la struttura dei costi e le necessarie inefficienze che uno
stato deve per forza di cose avere rispetto ad una società per azioni: un’azienda
può contare su una forza lavoro attiva al cento per cento mentre uno stato deve
garantire assistenza e istruzione ad anziani, malati, bambini e ragazzi, l’azienda
non ha vincoli stringenti di tutela ambientale mentre uno stato deve
considerare questo obiettivo come una delle sue principali priorità, uno stato deve
garantire servizi e diritti costituzionali come l’amministrazione della
giustizia, la difesa della dignità umana, il mantenimento dell’ordine pubblico,
programmi di piena occupazione lavorativa, politiche di redistribuzione del
reddito che in un ipotetico rendiconto dei costi e benefici provocano soltanto
delle spese ed è difficile valutare in termini di profitti (quanto costa essere
giusti? Equi? Liberi? Solidali? Qualcuno ha mai pensato di dare un prezzo ai
valori etici o umani che sono alla base della fondazione di uno stato
democratico?)
La
frenesia di veicolare ingenti quantità di capitali verso l’alto affamando il
resto della popolazione ha condotto l’umanità intera verso un tunnel stretto
dove l’uscita non ha più soltanto attinenza con fattori economici ma con la
logica in quanto tale: quando quest’ultima finirà per prevalere potremmo
ridiscutere allora se le politiche
keynesiane di drogaggio delle domanda aggregata e sostegno dell’investimento
privato asfittico siano davvero l’unica soluzione per uscire dall’ultima e
forse definitiva crisi del capitalismo, oppure esistono altri metodi per
rilanciare lo sviluppo economico sostenibile (non la crescita, perché questo è
un concetto che rientra ancora nella sfera privatistica degli affari e non nel
campo dei doveri di uno stato sovrano, che può sopportare fasi di contrazione
economica a patto di sfruttare questi periodi per elaborare nuovi piani e
programmi di riorganizzazione sociale, fiscale, politica, ambientale delle sue
infrastrutture) e consentire la necessaria spesa
a deficit dello stato, mentre in una fase di annebbiamento e isteria collettiva
come quella attuale possiamo solo sperare di limitare i danni in attesa di una
ritrovata e provvidenziale lucidità (ampliare i compiti della BCE, facendola
diventare una vera banca centrale a sostegno degli stati dell’Unione Europea
come prestatore di ultima istanza,
come accade già negli Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna, potrebbe essere una
buona soluzione intermedia per allontanare quantomeno lo spettro della
speculazione finanziaria e fare un passo in avanti verso la costruzione di una
vera Unione Europea democratica).
Articolo encomiabile, complimenti complimenti e complimenti!!!
RispondiEliminaVorrei leggerlo sul Corriere della sera o su La Repubblica...
Saluti
David
Grazie David!
EliminaIl motivo che mi ha spinto ad aprire questo blog è proprio quello che hai ricordato tu sopra: la mancanza di articoli simili sui giornali "ufficiali"...qualunque suggerimento, consiglio, idea per nuovi articoli è sempre benvenuta perchè questo blog è un contenitore aperto a tutti...
Grazie ancora
Piero
Mi sono avvicinato alla questione, anzi, alla Questione, con il saggio di P. Barnard "Il più grande crimine", che tu sicuramente conoscerai.
EliminaE' mio intento approfondire la questione soprattutto dal punto di vista tecnico e penso che tu abbia le capacità per aiutarci.
Ad esempio, se uno stato inizia ad adottare la teoria economica MMT, quali saranno le ripercussioni internazionali? L'importazione di materie prime prezzate in dollari?
Sarò un tuo assiduo lettore.
Saluti,
David
Grazie per la fiducia David,
Eliminaio ho letto il libro di Barnard e lo trovo illuminante su molti punti...purtroppo però come già saprai il modello MMT non è applicabile ai paesi dell'eurozona che non hanno più una moneta sovrana...mentre se consideriamo il dollaro, le teorie MMT sono ancora valide e soltanto un limite ideologico impedisce al governo americano di applicare la pratica della spesa a deficit...per quanto riguarda la tua domanda, le ripercussioni internazionali e l'apprezzamento del dollaro sul mercato dei cambi non dipende soltanto da scelte di politica interna (la spesa a deficit) ma soprattutto dal saldo della bilancia dei pagamenti (per intenderci la differenza fra esportazioni ed importazioni degli Stati Uniti da e verso gli altri paesi)...siamo sempre lì, se la spesa a deficit viene utilizzata in modo produttivo ed efficace per aumentare le esportazioni, l'offerta e la domanda di beni e servizi, le infrastrutture dello stato allora le ripercussioni internazionali sono minime, perchè non si crea inflazione interna e svalutazione della moneta sui mercati...mentre se la spesa a deficit dello stato viene utilizzata in modo improduttivo (per intenderci, sussidi a pioggia che non creano le basi di uno sviluppo sostenibile e di una ripresa economica), allora l'inflazione e la svalutazione possono diventare un problema e le importazioni potrebbero con il tempo costare molto care agli americani...è giusto precisare però (lo farò quanto prima nel blog) che io non sono un'economista in senso stretto (anzi gli economisti moderni non mi piacciono per niente perchè hanno troppi paraocchi e troppi pregiudizi preconcetti), ma sono un ingegnere gestionale che da alcuni anni mi occupo dello studio e implementazione di sistemi gestionali complessi e il sistema monetario è uno di quelli che mi affascina di più perchè è totalmente irrazionale e insostenibile...ma anche quello politico non scherza!!! Spero di esserti stato utile...
A presto
Piero
ottimo! Puntuale e chiaro come pochi.
EliminaA presto
Una unica osservazione, Lei parla della teoria MMT, gradirei conoscere il suo pensiero a proposito, ovvero se tale teoria include la sovranità Monetaria.
RispondiEliminaSe invece non pensa al ritorno della sovranità, come ritiene che il tutto sia compatibile con al situazione attuale ed ancora peggio nel futuro?
Grazie
Orazio
Ciao Orazio,
RispondiEliminala teoria MMT presuppone la sovranità monetaria come caposaldo principale e infatti può essere applicata solo nei paesi che hanno moneta sovrana (Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone)...nell'eurozona invece, che non ha più una moneta sovrana dal 2002 data di introduzione dell'euro, le teorie monetarie MMT non sono assolutamente applicabili...quindi prima bisognerebbe cambiare la BCE in una vera banca centrale di sostegno agli stati (cioè gli stati dell'eurozona dovrebbero avere un proprio conto corrente all'interno della BCE), poi eliminare gli assurdi vincoli di pareggio o surplus di bilancio imposti dall'Unione Europea, e solo dopo la riconquista di una piena sovranità monetaria sarà possibile applicare le teorie MMT anche nell'eurozona...cosa che considero assai improbabile visto i venti che tirano a Bruxelles e Francoforte...quindi per questo penso che noi europei dovremmo muoverci in modo diverso dagli americani, costruendo dal basso strumenti di sovranità monetaria popolare che si oppongano a quelli di sudditanza monetaria imposti dalla BCE e dall'UE perchè purtroppo dall'alto non possiamo sperare nulla di buono...ma tu ce lo vedi a Mario Draghi che si sveglia una mattina di buon umore chiama Mario Monti e gli dice: "Mario, sai cosa ti dico, oggi mi sento generoso e voglio aprirti un conto corrente qui alla BCE, in modo che lo stato italiano possa iniziare a spendere a deficit, con la sua moneta sovrana, come è giusto che faccia...". Non lo faranno mai! Quindi noi europei dobbiamo assolutamente agire per altre vie...in Sardegna lo stanno già facendo e lo descriverò nel prossimo articolo...
A presto
Piero
"debito pubblico e inflazione non sono mai stati un vero problema per uno stato che ha una piena sovranità monetaria ed economica", l'inflazione non è un problema per uno stato, dato che questo è debitore, ma per i "poveri" cittadini creditori è invece un grosso problema.
RispondiEliminaStefano
Confermo quello che ho scritto. Quando uno stato ha la sua moneta sovrana e una sua banca centrale di emissione può far fronte al debito pubblico in qualsiasi momento senza chiedere più tasse ai cittadini, perchè detto in termini molto semplificati può pigiare i tasti di un computer, creare moneta dal nulla e pagare tutti i debiti che vuole (vedi Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna). La scelta è soltanto di carattere politico ed economico, perchè in questo modo inflazionerebbe il mercato della sua moneta e potrebbe andare incontro alla svalutazione. Per un maggiore chiarimento della questione ti consiglio di leggere il libro del giornalista Paolo Barnard "Il più grande crimine" (http://paolobarnard.info/docs/ilpiugrandecrimine2011.pdf), che spiega gli aspetti tecnici di questo apparente paradosso in modo molto semplice e comprensibile. Saluti. Piero
RispondiEliminaConosco le teorie di Barnard per sommi capi, leggerò anche il libro. Il problema qui è legato però al fatto che l'emergere dell'inflazione in uno stato è causa di squilibri di per sé e quindi va sempre evitata o tenuta sotto stretto controllo. Chi in Italia contrasse debiti prima dell'emergere dell'inflazione alta fu da questa estremamente favorito, chi lo fece dopo fu sostanzialmente svantaggiato. Com'è possibile che in uno stesso stato una famiglia possa ripagare i propri debiti per l'acquisto di una casa in breve tempo, mentre un'altra deve contrarre debiti di più lunga durata per la sola ed unica ragione di aver comprato casa dopo (pochi) anni? Questo genera solo squilibri e lo stato non deve ricorrere mai per questi motivi all'inflazione per ripianare i propri debiti. L'inflazione agisce solo in maniera casuale e senza alcuna logica prestabilita. I debiti vanno diminuiti solo facendo ricorso alle tasse, che invece posso essere guidate in modo esatto a seguire un arbitrario predeterminato principio (difesa dei ceti deboli, della famiglia, piuttosto che delle imprese o qualsiasi altro).
RispondiEliminaPer il resto interessanti discussioni e ottimo blog
Stefano
Stefano, sul problema dell'inflazione siamo sulla stessa lunghezza d'onda. Anche io penso che crei squilibri, avvantaggi troppo le posizioni debitorie e i suoi effetti vadano limitati quanto possibile. Tuttavia uno stato con moneta sovrana ha la possibilità di combatterla con un'adeguata politica fiscale (spesa pubblica e tassazione), noi che non abbiamo più una moneta sovrana possiamo soltanto subirla o agire esclusivamente sul versante di una maggiore tassazione (che però, come stiamo sperimentando noi e hanno già provato i greci, crea recessione e quindi fa entrare l'inflazione dalla porta secondaria, perchè si riduce l'offerta di beni e servizi e si crea la cosiddetta stagflazione, recessione+inflazione). I debiti vanno giustamente ridotti quando sono stati contratti in modo irresponsabile e improduttivo, ma uno stato veramente sovrano dovrebbe avere anche la possibilità di spendere per rilanciare la sua economia, perchè se no si crea un avvitamento fra inflazione e recessione che non porta da nessuna parte. L'Europa da questo punto di vista è un esperimento mai provato prima nella storia, perchè priva gli stati di utilizzare una politica fiscale a 360 gradi e praticamente limita la spesa pubblica soltanto alla spesa corrente, cosa che visti i recenti risultati non sta funzionando molto bene...io non sono un nazionalista, ma mi piacerebbe vivere in un'Europa capace di competere con gli altri paesi alla pari e con una vera banca centrale, che dia sostegno agli stati quando serve e non solo alle banche. La spesa pubblica è stata utilizzata in Italia in modo scellerato, ma questo non significa che sia un male in sè, anzi. A presto. Piero
RispondiEliminaCiao Piero Valerio,
RispondiEliminati segnalo il seguente link: http://www.rivaluta.it/tabellatus.htm
Il Tasso di riferimento in ITALIA e in EUROPA.
In quel sito si vede un elonquentissimo grafico dove c'è la curva rossa dell'andamento del TUS(tasso ufficiale di sconto) dal 1958 al 2011, e la curva verde dell'andamento dell'infalzione.
Ebbene proprio dal 1981(divorzio Tesoro-Bankitalia), fino al 2002 si è avuto che il TUS è stato sempre più alto dell'inflazione!!! Sempre!!!! Più alto non di poco, ma di moltissimo!!!
Ed infatti l'area del grafico compresa tra la curva rossa e quella verde, rappresenta un costo esorbitante che lo Stato italiano, ha dovuto affrontare, per questa folle politica monetaria della Banca d'Italia, con Tassi sempre più alti dell'inflazione!!! Tassi a livelli astronomici!!!!!
Quell'area del grafico(tra la curva rossa e la curva verde), penso che possa ben rapprentare l'aumento esorbitante e repentino in un solo decennio del debito pubblico italiano, a partire appunto dal 1981!!!!
Pensa Piero, che addirittura la differenza tra il TUS e l'inflazione in quel periodo ha raggiunto un massimo di 10,2% nel 1992 ai danni dello Stato italiano!!! Negli altri anni vi era comunque una differenza del 7-8% sempre ai danni dello Stato, e quindi conseguente aumento velocissimo del debito pubblico.
Nella tabella sotto al grafico, trovi tutti i dati espressi in numeri a partire dal 1958 fino al 2011.
Penso che questo grafico e tabella del link indicato, possa dare dei ragguagli ulteriori, sull'aumento misterioso e a velocità esplosiva, del debito pubblico italiano a partire dal 1981.
Cordiali saluti, Nicola.
Ottimo spunto, Nicola!
EliminaQuesto grafico esemplifica meglio di qualunque altra parola quello che è avvenuto in quegli anni in Italia...con il pretesto di combattere l'inflazione hanno innalzato i rendimenti del debito pubblico a livelli mostruosi a favore di chi in quegli anni aveva soldi da investire (quindi banche, ma anche singoli risparmiatori privati) e a danno invece dell'intera collettività...l'innalzamento del TUS era dovuto anche alla scarsa offerta di denaro proveniente dalla banca centrale, che chiudendo i rubinetti dei finanziamenti statali cominciò ad incanalare la ricchezza verso una ristretta casta di privilegiati (il famoso 1%)...ho in mente un prossimo articolo dove riprenderò questo concetto...grazie e a presto. Piero
Complimenti Piero per la ricostruzione storica del disastro del nostro paese.
RispondiEliminaSono atterrato sul tuo blog per caso e volevo sapere solo se per caso fossi quel Piero che ho conosciuto nel lontano 2006 in un matrimonio di un amico (ormai ex amico ma non per causa mia).
Ciao Massimiliano Toro
Se sei tu scrivimi su Massimiliano.toro@gmail.com
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Cordiali saluti..
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Ciao signore e Signora,
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Grazie.
Mr Brent Timmons